2006·03·03 - Left n. 8 • Bertello·A • Oltre il velo

Oltre il velo


✩ (Left Story)

Cultura & Scienza — Storia

L’istituto dello hijab, che impone alle donne di coprirsi il capo e il volto, separa nettamente il loro mondo da quello degli uomini

È una storia lunga e combattuta, iniziata nel VI secolo

di Agnese Bertello
foto di Abbas
Left n. 8 — 3/3/2006 (venerdì 3 marzo 2006), pp. 78-80.


Siamo nel quinto anno dell’Egira (627), la cerimonia del matrimonio tra Maometto e Zaynad è appena terminata. Il Profeta è ansioso di rimanere solo con la sua quinta moglie, ma alcuni invitati non accennano ad andarsene. L’inviato di Allah pazienta, cammina su e giù per le sue stanze, va a parlare con le altre mogli, ma quando torna i tre ospiti sono ancora lì. Poi, finalmente, si decidono. Appena lasciano la sala, Maometto, fermo sulla soglia, recita: «O credenti, non entrate nella casa del Profeta, a meno che non siate invitati per un pasto e dopo aver atteso che il pasto sia pronto. Quando poi siete invitati entrate; e dopo aver mangiato andatevene senza cercare di rimanere a chiacchierare familiarmente. Ciò è offensivo per il Profeta, ma ha vergogna di dirlo a voi, mentre Allah non ha vergogna della verità. Quando chiedete alle mogli un qualche oggetto chiedetelo da dietro una “cortina”: ciò è più puro per i vostri cuori e i loro».

La ‹Sunna›, la raccolta dei detti e dei fatti del Profeta, racconta così il momento fatidico in cui Maometto pronunciò i versetti che fondarono l’istituto dell’‹hijab›: un termine importante nella cultura islamica, che si riferisce, genericamente, a qualcosa che separa, divide o protegge. Può trattarsi di un elemento architettonico, all’interno delle case o delle moschee, e in questo caso viene tradotto con “tenda”, “cortina” oppure può indicare il “velo”, quell’indumento che ancora oggi contraddistingue l’abbigliamento della donna musulmana praticante e che così tante e aspre polemiche ha acceso di recente.

[A·3]
Quelli citati sono versetti dall’apparenza innocua, eppure gravidi di conseguenze: lo ‹hijab› cade e separa per sempre gli spazi di vita intima da quelli della vita pubblica, il mondo delle donne da quello degli uomini. E un velo, quasi un’estensione di quella parete, coprirà il capo, e in alcuni casi il volto, delle donne. Questi però sono gli esiti di un processo piuttosto combattuto, che inizia nei primissimi anni di espansione dell’islam, e che vede contrapporsi apertamente due partiti, uno femminista e uno maschilista. Un processo che avrebbe potuto concludersi anche diversamente.


L’età dell’ignoranza


[B·1]
Tranne una, Aisha, tutte le spose di Maometto erano vedove. Lo era anche la sua prima moglie, Kadija, una ricca mercante, di quindici anni più vecchia. È lei a chiederlo in sposo, qualche tempo dopo averlo assunto e avendo sperimentato con quale oculatezza e saggezza sapeva gestire il suo cospicuo patrimonio. Quello di Kadija non è il gesto di una stravagante: all’epoca le donne avevano una certa autonomia nella gestione della sessualità. La penisola araba del VI secolo, in cui nasce e vive metà dei suoi anni Maometto, era ancora caratterizzata, unica nell’intero Medio Oriente, da una cultura di tipo matrilineare e nomade. Esistevano diverse forme legittime di unione tra uomo e donna, anche legali contratti “temporanei”. Le donne, una volta sposate, continuavano a far parte del clan originario, in cui venivano accolti anche i figli; i mariti si recavano in visita alle mogli quando lo desideravano. La poligamia era ammessa, per entrambi i sessi. Le donne potevano divorziare e per farlo bastava un gesto semplice: ruotare la tenda in cui vivevano in modo che al suo arrivo lo sposo non trovasse più di fronte a sé l’ingresso, bensì il retro della tenda. Un ripudio, insomma. Il concetto di ‹zina›, di adulterio, di peccato, in quanto tale, era evidentemente superfluo: «Commette forse ‹zina› una donna libera?», chiese un giorno al Profeta una neoconvertita. A questa autonomia sessuale corrispondeva anche un diverso peso all’interno del clan: le donne potevano commerciare, andare in guerra, porsi come leader, anche spirituali, e avevano un maggior accesso alle risorse economiche della famiglia. Se questa è, grossomodo, la concezione della donna nel periodo preislamico o, come dicono i musulmani, nel periodo della ‹jahilia›, “dell’ignoranza”; se questo è il retroterra culturale da cui proviene il profeta dell’islam, che avrà inoltre verso le donne un atteggiamento personale di grande rispetto e profonda attenzione e tenerezza, decisamente diversa era, nello stesso periodo, la condizione della donna nelle aree limitrofe, nell’Impero bizantino e soprattutto in quello persiano-sassanide dell’Iran e dell’Iraq.


I regni della misoginia


[C·1]
La misoginia in quella regione era così feroce che non ha senso parlare di quali diritti fossero negati: si discuteva se la donna fosse più simile a una cosa o a un individuo e, comunque, non le si riconosceva maggiore autonomia che a uno schiavo; serviva a scopi sessuali e riproduttivi; doveva assoluta obbedienza al marito — la professione di obbedienza doveva essere fatta regolarmente, ogni mattina, inginocchiandosi per nove volte davanti al consorte che ne disponeva come meglio credeva; veniva ereditata e poteva essere prestata. I figli appartenevano al marito: per gli uomini sassanidi avere eredi maschi era un obbligo. Infine, sebbene le donne ereditassero, erano i mariti gli unici usufruttuari del patrimonio. Nella stessa epoca, a Bisanzio, le donne di nobili origini erano solite indossare il velo nei luoghi pubblici, o dove fossero presenti uomini estranei, per distinguersi dalle schiave e dalle donne di altre religioni, vivevano segregate e protette da schiere di eunuchi, se uscivano dovevano essere accompagnate, si sposavano ancora bambine, il loro diritto di testimonianza era limitato a cose di cui avevano diretta competenza, come le nascite. Questo tipo di cultura aveva già cominciato a filtrare nell’Arabia del VI secolo, perché i contatti commerciali con questi paesi erano fitti, in particolare nei centri di grande passaggio come la Mecca. Si trattava però di una penetrazione non omogenea.


A Medina e alla Mecca


Profonde divergenze esistevano, per esempio, tra gli abitanti della Mecca e quelli di Medina. Quando negli anni successivi all’Egira i meccani si trasferirono a Medina per seguire Maometto, fu grande il loro sconcerto di fronte all’atteggiamento indipendente delle medinesi che tenevano testa ai loro mariti, prendevano decisioni autonomamente e non si lasciavano battere. Spesso il Profeta era costretto ad ascoltare i suoi fedeli che si lagnavano e lo interrogavano su quale atteggiamento tenere nei confronti delle loro mogli: è legittimo picchiarle? Quali posizioni sono ammesse nell’amore?

«Inviato del cielo, tu accogli tutti presso di te, gli onesti come i perversi. Perché non imponi lo ‹hijab› alle madri dei credenti?», lo interrogò un giorno Umar ibn al-Khattab. Futuro califfo con il titolo di Principe dei credenti, soldato e fedele servitore di Maometto, coraggioso, giusto, onesto, pio, ma noto ai contemporanei per la brutalità con cui era solito trattare le sue mogli, Umar era il capo della fazione maschilista, tra i più accaniti sostenitori della necessità di introdurre l’uso del velo. Tutto ciò forse non avrebbe avuto importanza, se quelli non fossero stati per Maometto anni di inattesa difficoltà.


Nudi senza difesa

[E·0]

La sura XXXIII, ‹I coalizzati›, di cui il versetto citato all’inizio fa parte, apparentemente non ha nulla a che vedere con donne, veli e matrimoni; l’argomento è politico, guerresco persino, poiché racconta lungamente l’assedio di Medina da parte dei meccani che si concluse positivamente per Maometto ma che gli costò parecchi uomini e sacrifici, in una situazione di crescente sfiducia nei suoi confronti. Per la prima volta, dacché aveva lasciato la Mecca e aveva fatto ingresso a Medina come riconosciuto profeta, Maometto si trovava in una posizione di debolezza: cresceva il numero degli Ipocriti “dal cuore malato”, come venivano chiamati i credenti più tiepidi, opportunisti politici, a volte apertamente ostili, poco persuasi dell’autorità di Maometto, del suo valore di capo militare.

[E·2]
La città era cinta da un fossato che Maometto stesso aveva ordinato di scavare, per impedirne la presa, ma dentro regnavano confusione e incertezza. In quel periodo era d’uso che le donne venissero rapite, che si abusasse di loro. In strada esisteva un altro codice etico: lì, il reato di ‹zina›, tradimento o adulterio, poteva avvenire; lì, il corpo della donna era ‹‘aoura›, nudità, elemento vulnerabile senza difesa. Perfino le mogli del Profeta venivano accostate, c’era chi pensava di poterle sposare una volta morto Maometto, e osava parlarne al Profeta, osava addirittura sfiorare loro la mano. Quasi fossero donne come le altre. L’introduzione del velo si fa, per la fazione maschilista, sempre più urgente, non tanto per gestire un problema di ordine pubblico, ma soprattutto per ricondurre le donne alla ragione, per sedare quella voglia di autonomia che con sfacciataggine alcune di esse, capeggiate da Umm Salama, sesta moglie di Maometto, esprimevano, per fiaccare la loro volontà di partecipare a tutte le sfere della vita sociale e di condividere con gli uomini oneri, onori e perfino bottini di guerra.


Il Profeta alle strette


[F·1]
Come i musulmani avevano bene appreso dalle popolazioni con cui erano entrati in contatto, una donna col velo era una donna che dichiarava la sua appartenenza, si portava dietro la sua casa e la sua famiglia, era una donna che si sottometteva. Toccarla era peccato. Le pressioni da parte degli uomini su Maometto perché prendesse posizione, si fecero sempre più forti. Di fronte a una situazione che avrebbe richiesto più tempo per essere risolta, messo alle strette dai suoi uomini che gli chiedevano di scegliere, bisognoso di ricompattare la comunità per affrontare la guerra contro i meccani, Maometto scese a patti e accolse le istanze delle fazioni maschili, capeggiate da Umar. Si arriva così agli altri versetti del Corano in cui compare lo ‹hijab›, questa volta inteso esplicitamente come indumento, come “velo”: «E di’ alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar il loro velo fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai figli…» (Corano, XXIV, 31). Le prime a subire il peso di queste costrizioni furono proprio le mogli del Profeta, tanto che l’espressione “prendere il velo” significa anche diventare “una legittima moglie di Maometto”, ma poi l’uso si diffuse e si estese a tutte le donne musulmane non schiave.


Una società patriarcale


[G·1]
Morto il Profeta, alla guida della comunità islamica venne posto dapprima Abu Bakr, padre della seconda prediletta moglie di Maometto, Aisha, e poi Umar ibn al-Khattab. Il suo califfato fu determinante per l’islam, perché promulgò diverse disposizioni civili, penali e religiose che rimarranno inalterate in gran parte dei paesi islamici fino ai giorni nostri. Fu lui, per esempio, ad introdurre la lapidazione per l’adulterio.

[G·2]
Gli elementi di autonomia presenti nel periodo della ‹Jahilia› [sic!] spariscono e la trasformazione in una società patriarcale si compie definitivamente. Nell’epoca Omayyade e Abasside, i califfi restrinsero via via gli spazi a disposizione, legittimando le loro posizioni con il ricorso a presunti “detti e fatti” del Profeta tramandati di bocca in bocca per secoli. Sempre sulla base di queste testimonianze si arrivò con il tempo a compilare libri come quello scritto nel XIII secolo dal teologo Ibn Taimiya, dal titolo ‹Il velo della donna e il modo in cui si deve vestire per la preghiera›: un testo che è la quintessenza della misoginia, una visione che ha avuto fortuna nel mondo arabo, indipendentemente dalle contraddizioni con il Corano in cui Allah si rivolge direttamente «ai musulmani e alle musulmane, ai credenti e alle credenti, ai devoti e alle devote» (Corano XXXIII, 35).





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ANNOTAZIONI E SPUNTI
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COMMENTO — Della stessa autrice Agnese Bertello si trovano tracce di un articolo con lo stesso titolo (‹La donna nell’islam: Oltre il velo›) pubblicato sul periodico “Medioevo” n. 12 (95), dicembre 2004, ‹Il culto dei magi. La città comunale. Serie speciale: navigazione›; ancor prima, un articolo con lo stesso titolo sarebbe stato pubblicato su “Elle”, n. 9, settembre 2004. Non sappiamo però se i testi degli articoli su questi periodici fossero identici a quello pubblicato da “Left”.
NOTA: in particolare ci piacesebbe saperlo perché abbiamo il sospetto che i titoli che inframmezzano il testo non siano dell’A., ma siano stati inseriti dalla redazione del settimanale.


[A·3]• «[…] due partiti, uno femminista e uno maschilista»: immaginiamo che “femminista” e “maschilista”, per quanto termini accattivanti nella loro schematicità, non siano da intendere nel senso attuale; anche a giudicare dal seguito del testo, più che “maschilista” il secondo si potrebbe forse definire “misogino”, ossia di coloro che vedono nella donna – nelle donne? – soprattutto un pericoloso fattore di disordine morale e di instabilità sociale, da tenere sotto controllo per la salvaguardia della comunità, tendenza che nella Storia sembra essersi acuita nel passaggio dal Bronzo al Ferro.

[B·1]• Nel testo originale: «[…] nell’Impero bizantino e soprattuttto [sic!] in quello persiano-sassanide […]» la tripla ‘t’ è un evidente refuso; dev’essere “soprattutto” (corretto).
IBID.• «Esistevano diverse forme legittime di unione tra uomo e donna, anche legali contratti “temporanei”»: veramente risulta che contratti “temporanei” (da pochi giorni a 99 anni) ancora esistano e facciano parte della tradizione in molti paesi islamici.

[C·1]• «La misoginia in quella regione […]»: perché definisce “una regione” l’Impero bizantino e quello persiano-sassanide dell’Iran e dell’Iraq? Che cosa avrebbero in comune dal punto di vista storico-politico e soprattutto da quello culturale? A meno che per “quella regione” non intenda esclusivamente il secondo (l’impero persiano-sassanide), come sembra d’altronde confermato dal periodo successivo (nello stesso cpv.) «Nella stessa epoca, a Bisanzio […]». L’autrice non chiarisce tuttavia — e neppure tenta di formulare ipotesi — quale sia l’origine di questa “cultura” misogina.
IBID.• «Nella stessa epoca, a Bisanzio, le donne di nobili origini erano solite […]»: anche in questo caso, non si chiarisce se il diverso comportamento praticato dalle “donne di nobili origini” fosse prescritto da qualche norma e quale eventualmente ne fosse l’origine.
IBID.• «[…] per distinguersi dalle schiave e dalle donne di altre religioni […]»: “altre religioni”, si suppone, rispetto a quella cristiana? Allora la fonte non esplicitata potrebbe essere individuata nei vangeli?
NOTA: ma l’impero bizantino non rappresentava, a quell’epoca, l’autentica prosecuzione della tradizione politica e culturale dell’impero romano, seppure nella sua versione di lingua greca e convertita al cristianesimo? Il “velo” venne dunque adottato a Bisanzio prima che nell’islam? Cosa avrebbe da dire, in proposito, una bizantinista come Silvia Ronchey?
IBID.• «[…] segregate e protette da schiere di eunuchi […]»: come mai nessuno s’indigna mai per la sorte di questi poveri eunuchi?

[E·0]• «Nudi senza difesa»: perché “nudi” (al maschile), se nel testo si tratta esclusivamente della situazione della donna?

[E·2]• «In quel periodo era d’uso che le donne venissero rapite, che si abusasse di loro»: come sarebbe “era d’uso”? Perché in particolare “in quel periodo”, e perché a Medina e non altrove? Qual era l’origine di questo “uso”? E con quali modalità avvenivano “rapimenti” e “abusi” — individuali, collettivi, episodici, temporanei, o permanenti? Ma l’intero cpv. suscita parecchi interrogativi.
IBID.• «In strada esisteva un altro codice etico […]»: “codice etico”? — ovvero era lecito fare “in strada” ciò che “in casa” non lo era? Cosa intende esattamente l’autrice per “codice etico”? Si trattava di norme scritte, oppure verbali, oppure semplicemente consuetudinarie?
IBID.• «[…] introduzione del velo […] per la fazione maschilista […] per ricondurre le donne alla ragione […]»: dunque esistettero diverse fazioni che, pur ritenendo l’introduzione del velo comunque una necessità, la giustificavano tuttavia con motivazioni differenti? La questione poteva avere anche risvolti sulla rivalità tra diverse fazioni per influenzare Maometto ed eventualmente succedergli al potere?

[F·1]• «[…] istanze delle fazioni maschili, capeggiate da Umar»: ecco che le fazioni “maschiliste” (vedi ann. cpv. A·3) sono diventate semplicemente “maschili”; ma Maometto perché mai avrebbe dovuto essere “super partes”? Forse perché “illuminato” da Allah?

[G·1]• «Fu lui […Umar ibn al-Khattab…] ad introdurre la lapidazione per l’adulterio»: su quest’argomento sarebbe interessante avere qualche dettaglio in più, fu un’iniziativa arbitraria del califfo? La introdusse nell’islam, ma era già in vigore altrove? L’“innovazione” — se così possiamo definirla — venne giustificata all’epoca con qualche circostanza contingente?

[G·2]• Nel testo originale: «Gli elementi di autonomia presenti nel periodo della ‹Jahilia› [sic!] […]» qui il termine “jahilia”, che era trascritto in minuscolo al cpv. B·1, si trova invece con l’iniziale maiuscola (anche se il maiuscolo, a quanto ne sappiamo, nella scrittura araba non esiste). Consultando la pagina di wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/J%C4%81hiliyya), si direbbe che la trascrizione più comune del termine sia ‹jāhiliyya› (it: ignoranza).
IBID.• «[…] il Corano in cui Allah si rivolge direttamente […]»: “direttamente”, beninteso, tramite l’angelo Gabriele che lo dettò, Maometto che lo recitò, i molti compilatori che lo impararono a memoria e poi lo misero per iscritto, nonché coloro che poi raccolsero le diverse versioni del testo, e distrussero o fecero distruggere quelle ritenute spurie o non conformi!

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