2014·11·06 - BabylonPost • Drummond·EB • Il vuoto, il nulla teorico e poi quel silenzio della nascita umana

Il vuoto, il nulla teorico e poi quel silenzio della nascita umana

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Il pensiero razionale non è in grado di comprendere l’origine dell’esistente dal non esistente, così come non riesce a concepire la nascita del pensiero dalla realtà biologica.
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di Edoardo B. Drummond, fisico
BabylonPost — 06/11/2014 (giovedì 6 novembre 2014)


Quando, nel VI e nel V sec. a.e.v. (‹ante era vulgaris[*]), i primi filosofi di lingua greca, oggi detti presocratici, cominciarono a occuparsi dell’essere e del non essere, non esisteva ancora una chiara distinzione tra la filosofia e lo studio del mondo naturale, così anche i concetti di non essere, di vuoto e di nulla erano ampiamente sovrapponibili. Secondo la scuola fondata da Pitagora a Crotone, una colonia greca sulla costa ionica della Calabria, essendo tutte le cose riconducibili ai numeri naturali, il vuoto era associato allo zero (‹medén› = nulla, niente), e tuttavia esso era ben esistente e aveva un ruolo preciso sia nel cosmo (quello che oggi chiamiamo universo) sia nel mondo dei numeri, dove permetteva di differenziare tra numeri pari e numeri dispari.

Per gli atomisti (la cui scuola si sviluppò in Asia Minore e il cui più noto rappresentante fu Democrito), il vuoto è necessario per l’esistenza stessa degli enti: contrapposto al pieno, costituisce quello spazio tra gli atomi (le particelle indivisibili di cui sono composti tutti gli oggetti) che ne consente il movimento e l’aggregazione. Secondo la celebre affermazione di Parmenide, il fondatore della scuola di Elea (nella Campania meridionale), ciò che è non può che essere, mentre ciò che non è non può che non essere; ciò che veramente esiste, è un unico essere, immutabile, mentre gli oggetti e il loro continuo mutare non sono che apparenze create dai nostri sensi; il vuoto, o il nulla, non potendo essere pensati come esistenti, non possono di conseguenza neppure esistere.

Sostanzialmente dello stesso avviso sarà poi Aristotele (IV sec. a.e.v.) il quale, in polemica con gli atomisti, non solo smentisce che il vuoto sia necessario per il moto, ma sostiene che esso lo renderebbe persino impossibile, impedendo il contatto tra la forza agente e l’oggetto spostato. Le sue argomentazioni influenzeranno in seguito la concezione del mondo dei cristiani, e verranno riprese dagli alchimisti medievali, con la teoria dell’‹horror vacui›, secondo la quale la natura avrebbe orrore del vuoto (‹Natura abhorret a vacuo›), e ne impedirebbe la formazione riempiendo (mediante fluidi) ogni spazio.

Nonostante l’ampio credito di cui godeva Aristotele, nel successivo periodo ellenistico, diversi filosofi continueranno a sostenere l’esistenza del vuoto: Stratone di Lampsaco, che pure diresse la scuola aristotelica; Ctesibio, che ad Alessandria d’Egitto studiò la compressibilità e l’elasticità dell’aria e fu il fondatore della pneumatica, e Filone di Bisanzio, che di questa scienza espose i principi in un trattato (Pneumatica, 250 a.e.v.). Gli stoici relegano il vuoto “al di fuori del cielo”, mentre l’epicureo latino Tito Lucrezio Caro (nel ‹De rerum natura›, I sec. a.e.v.) riprende le teorie atomistiche per spiegare il movimento, la penetrabilità nonché le differenze di peso specifico dei corpi.

Fin dall’antichità sembra quindi configurarsi una contrapposizione tra i sostenitori dell’esistenza del vuoto (che sarebbe legato al concetto di divenire) e i suoi oppositori (che in genere affermano la sostanziale immutabilità delle cose).

Negli stessi secoli in cui nel Mediterraneo orientale si afferma il ‹logos› greco, in ambito religioso avviene il passaggio al monoteismo, e con esso acquista particolare rilevanza l’idea della creazione, da parte della divinità (che sarebbe quindi pre-esistente) del mondo sensibile come adesso lo vediamo. Per secoli possiamo rilevare una certa commistione con i miti politeisti precedenti — come se il monoteismo, sviluppatosi per opposizione al politeismo, non fosse però riuscito a separarsi completamente dal suo contesto culturale; la stessa Genesi menziona uno stato iniziale del mondo informe, in cui predominavano le tenebre e l’acqua, il primo uomo sarebbe poi stato creato dalla polvere, e la prima donna da una costola di quell’uomo. All’origine del mondo vi sarebbe dunque l’azione ordinatrice (dal kaos al cosmo) di una divinità, com’era nella mitologia greca e ancor prima in quella mesopotamica, e non una creazione dal nulla, come è stato sempre sostenuto e ribadito dalla chiesa cattolica (‹creatio ex nihilo›, cfr. Concilio Vaticano I, 1869-70).

In questo caso non è l’idea del vuoto, ma quella del nulla (un nulla originario) che si lega a una concezione non più ciclica, ma lineare del tempo: il mondo, avendo avuto un inizio, avrà necessariamente una fine, e curiosamente è proprio l’impero romano che, nel tentativo di dilazionare una inevitabile decadenza, fa propria la religione cristiana che si diffonde così intorno al Mediterraneo. Ad Alessandria d’Egitto, il cristiano di lingua greca Giovanni Filopono (VI sec.) critica la teoria aristotelica del moto, sostenendo che esso è dovuto a una “forza cinetica incorporea” (quella che oggi viene detta quantità di moto) che continua ad agire una volta che al corpo sia impressa una spinta iniziale.

Tra il X e l’XI secolo (quando in Occidente molti si attendono la fine del mondo) la polemica sul mutamento e sul moto dei corpi passa all’islam che dal medio oriente si era rapidamente espanso fino all’attuale Spagna: in Andalusia Avempace (Ibn Bajja), in aperto disaccordo con Aristotele, sostenne che il moto uniforme implica l’assenza di una forza attiva; il persiano Avicenna (Ibn Sina) sviluppò ulteriormente le idee di Filopono, mentre Averroè (ibn Ahmad Rushd, XII sec.), celebre commentatore di Aristotele e sostenitore della compatibilità delle concezioni aristoteliche con i principi dell’islam, vi si oppose, giudicando che fosse indebito giustificare il moto dei corpi ricorrendo a un’astratta forza incorporea.

Solo nel XIII secolo la contesa fra “vacuisti” e “pienisti” ripassa all’Occidente cristiano, coinvolgendo Alberto Magno e Tommaso d’Aquino; l’approfondimento delle idee di Filopono e di Avempace portò infine all’elaborazione sistematica della teoria dell’‹impetus› (proposta dal francese Giovanni Buridano, nel XIV sec.), antesignana del moderno principio d’inerzia.

Ancora Cartesio (René Descartes), nei suoi ‹Principia Philosophiae› (1644), afferma l’inesistenza del vuoto, eppure già l’anno precedente Evangelista Torricelli aveva mostrato col suo famoso barometro che il vuoto può esistere in natura e che l’aria ha un peso, smentendo definitivamente ogni teoria filosofica sull’horror vacui. Blaise Pascal (1647) amplia il lavoro di Torricelli, formulando il concetto di pressione e applicandolo allo studio dei liquidi. Leibniz (Gottfried Wilhelm von Leibniz, 1646-1716) ammette che si possa concepire il vuoto, e tuttavia non può accettare che Dio abbia creato il mondo lasciandovi delle falle vuote di materia; ancora Immanuel Kant (nei ‹Primi principi metafisici della scienza della natura›, del 1786, ovvero più di 140 anni dopo l’esperienza di Torricelli) non ritiene che il vuoto possa essere soggetto all’analisi razionale, e tuttavia è convinto che la sua esistenza debba essere esclusa per via sperimentale. Dopo di lui, il vuoto (inteso come assenza di materia) non rientrerà più nel campo dell’indagine filosofica, ma rimarrà oggetto di studio esclusivamente dei fisici.

Agli inizi del ’900, le teorie atomistiche ricevettero un nuovo impulso quando Max Planck si rese conto che gli scambi di energia tra materia e radiazione elettromagnetica (la luce) dovevano avvenire per quantità finite, dette quanti. La compresenza di aspetti corpuscolari e ondulatori nella radiazione condusse nel giro di pochi anni all’elaborazione della teoria quantistica, secondo la quale la materia è interamente costituita da particelle elementari (eredi degli antichi atomi dei filosofi presocratici) che si muovono nello spazio e formano sistemi più o meno stabili sotto l’azione di forze la cui trasmissione a distanza è assicurata da altre particelle (i bosoni, tra i quali il fotone è il portatore della forza elettromagnetica) che vengono emesse, assorbite e scambiate tra particelle di materia.

La moderna fisica quantistica sembrerebbe così accreditare definitivamente le tesi dei “vacuisti”, ma questa affermazione non è del tutto vera, infatti i “pienisti” possono reclamare una vittoria parziale: giacché tutte le particelle si propagano come onde, lo spazio non può essere realmente vuoto, esso deve contenere qualcosa (i cosiddetti campi) di cui queste onde costituiscono le oscillazioni. A causa del principio di indeterminazione di Heisenberg questi campi non possono avere valore nullo, e quindi è come se (anche nello spazio privo di materia) coppie di particelle e antiparticelle si formassero continuamente per poi subito dopo annihilarsi. Questa concezione del vuoto “pieno” di particelle virtuali potrebbe sembrare bizzarra, ma è confermata dalla misurazione di un particolare fenomeno (detto effetto Casimir dal nome del fisico olandese Hendrik Casimir che lo teorizzò nel 1948) in cui l’esistenza delle particelle virtuali causa una forza attrattiva tra due piastre metalliche parallele poste a una distanza di qualche micron (millesimo di millimetro).

A differenza del vuoto, però, il nulla era rimasto nell’ambito delle riflessioni dei filosofi. Già in epoca bizantina, i neoplatonici (Plotino di Licopoli, III sec.) avevano evidenziato come la polarità insita in tutte le cose del mondo, permetteva di stabilire un rapporto dialettico tra di esse, essendo l’una il negativo dell’altra (ad esempio la verità era definibile tramite il suo negativo, la falsità). L’Uno (Dio) non era definibile, in quanto ne sarebbe risultato limitato, si poteva invece dire ciò che esso non era (non era volontà, né atto morale, né coscienza); non avendo alcuna caratteristica, esso era superiore e non riconducibile all’Essere, per cui, come verrà detto molti secoli dopo dal mistico tedesco Jakob Böhme (1575-1624), esso è il ‹Nihil aeternum› (Nulla eterno).

Nei primi anni dell’800, questa concezione viene ripresa dal filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel, secondo il quale il nulla non può essere concepito se non in contrapposizione all’essere; si scopre così che nella loro indeterminatezza iniziale essi si identificano; essere e nulla, che solo il nostro senso comune percepisce come opposti, coesistono in realtà nel divenire che è un continuo passaggio dall’uno all’altro (torna qui l’idea dell’eterno divenire già proposta, nel VI-V sec. a.e.v., dal presocratico Eraclito).

Cento anni dopo Hegel, un altro filosofo tedesco, Martin Heidegger, pone la riflessione sul nulla al centro della sua concezione metafisica: il nulla come niente, ovvero “non ente”, sarebbe la rivelazione della nullità dell’ente e quindi di tutti gli enti che hanno questa caratteristica come determinante il loro essere; in particolare, l’esperienza dell’angoscia (quella esistenziale, di tipo kierkegaardiano), sarebbe dovuta all’insignificanza tanto degli esseri quanto della nostra stessa esistenza, che si troverebbe continuamente in bilico tra l’essere e il nulla.

È tristemente noto come questa concezione heideggeriana abbia immediatamente trovato una sponda politica nell’ideologia nazista, che teorizzava la superiorità della “razza ariana”, giustificando la lotta per la supremazia e addirittura l’annientamento (‹Vernichtung›) di interi popoli.

Quel che qui ci preme evidenziare è però l’affermarsi dell’idea della sostanziale equivalenza tra l’essere e il nulla.

Verso la metà del secolo precedente, Ludwig Feuerbach (‹Essenza del cristianesimo›, 1841) aveva affermato che “Non è Dio che crea l’uomo, ma l’uomo che crea l’idea di Dio”: l’uomo pone (o crede di porre) l’essere fuori di sé, ma potremmo anche affermare che in realtà quell’essere è non-essere, nulla.

Colpisce una certa assonanza con quanto affermato dallo psichiatra Massimo Fagioli nella teoria della nascita (‹Istinto di morte e conoscenza›, 1972): il neonato, appena venuto alla luce, per la sua impotenza fisica non può reagire all’insulto della realtà inanimata (il fotone) che attivando una reazione specifica dell’essere umano, la fantasia di sparizione, ovvero fa della nuova realtà materiale con cui si trova a confrontarsi, una non esistenza, e al tempo stesso fa sparire la realtà biologica precedente (quella del feto in rapporto col liquido amniotico). Simultaneamente, con il concorso della capacità di reagire agli stimoli fisici, sviluppatasi nei mesi di gravidanza, e divenuta vitalità alla nascita, crea una nuova realtà biologica diversa dalla precedente perché caratterizzata da un movimento interno che è pensiero, e necessità di rapporto con un altro essere umano simile a se stesso. Nell’ambito di questo rapporto, per i primi mesi di vita, il neonato sviluppa la propria identità come capacità di fare immagini, molto prima di essere in grado di dare al pensiero un’espressione verbale.

Lo stesso Fagioli arricchisce ulteriormente (nel 1996, e poi nel 1999) la sua teoria individuando nel concetto di linea un prodotto specifico del pensiero umano: la linea che, non esistente in natura, è creazione del pensiero, diventa, con lo sviluppo dell’abilità motoria e della tecnica, capacità di produrre immagini (come quelle raffigurate sulle pareti delle grotte preistoriche, ormai pare accertato, da mani femminili) e poi scrittura, passando inizialmente per i pittogrammi, per spezzettarsi successivamente nelle notazioni semitiche e poi alfabetiche, in cui i segni neri si legano non più alle idee ma al suono della voce che nomina le cose. Questa capacità, che nel bambino diviene manifesta soltanto verso i 5-6 anni, deve però avere le sue radici in una possibilità anteriore — quella di pensare la linea — che Fagioli colloca proprio all’inizio della vita, ovvero alla nascita.

Si può immaginare che il pensiero della linea sia alla base di quella capacità simbolica che — come affermano antropologi e filosofi della scienza quali Tattersall, Cavalli Sforza e Pievani — avrebbe permesso al Sapiens di sviluppare il linguaggio a livelli tali da assicurargli un rapidissimo successo evolutivo?

Secondo le elaborazioni teoriche più recenti, proposte sempre da Fagioli nella rubrica ‹Trasformazione› che firma sul settimanale ‹Left› fin dal 2006, alla nascita, quando simultaneamente all’esposizione della retina alla luce si ha la fantasia di sparizione, segue un tempo (detto di “venti secondi”, indipendentemente dalla durata reale che varia di caso in caso) prima che intervenga la memoria-fantasia dello stato precedente, e questa consente di passare dall’attivazione della materia cerebrale a quella dei motoneuroni e quindi dei muscoli, la cui azione è necessaria per la respirazione (e di conseguenza per il vagito). In questo lasso di tempo, il neonato ancora non respira e appare completamente inerte, eppure è già vivo, perché la fantasia di sparizione ha dato inizio al pensiero.

Possiamo forse affermare che il primo pensiero è quello di una non esistenza, la non esistenza della luce ‹in primis›, ma anche — se è vero che vista e udito sono in stretta connessione — quella dei rumori del mondo? In altre parole, il neonato crea in un primo tempo il buio e il silenzio. Il buio (come avviene nel sonno) è necessario per poter creare immagini, il silenzio (basta pensare alla musica, al canto, al linguaggio articolato) è la premessa necessaria per poter emettere e distinguere suoni, quasi avesse un corrispettivo nel foglio bianco sul quale lo scrittore traccia i suoi segni. Analogamente, possiamo ipotizzare che una sorta di silenzio interiore, e in genere la capacità di isolarsi dagli stimoli, è la necessaria premessa perché possano emergere immagini mentali e pensieri verbali originali. La fantasia di sparizione rende così possibile la creatività.

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[*] La notazione a.e.v. (‹Ante Era Vulgaris›), e la sua corrispettiva e.v. (‹Era Vulgaris›, locuzione introdotta nel 1615 da Giovanni Keplero), seppure numericamente equivalenti a quelle (d.C. e a.C.) basate sulla cronologia cristiana, consentono di evitare ogni riferimento esplicito a una data di nascita non significativa in altre culture e oltretutto storicamente infondata.

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