Non c’è nulla meglio del niente
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di Daniele Mont D’Arpizio
unipd.it/ilbo — 23/01/2017 (lunedì 23 gennaio 2017)
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Può l’assenza divenire in qualche modo presente, il nulla qualcosa? E se succede, possiamo ancora parlare di nulla? “Il significato di zero rappresenta una questione di grande difficoltà – scriveva Bertrand Russell –, da trattare con estrema cura se si vuole evitare di incorrere in contraddizioni”. Lo stesso si potrebbe dire anche di concetti come quelli di vuoto e di nulla, che tutti noi crediamo di possedere senza peraltro approfondire cosa significhi veramente dare un nome a ciò che non è. Non si tratta solamente di un astruso problema teorico: l’invenzione o scoperta (etimologicamente è lo stesso) di concetti come lo zero incide ancora oggi sulle nostre vite, essenziale tanto a chi scrive questo articolo quanto a chi lo legge su questo supporto, che si basa sul codice binario. Circuito chiuso e circuito aperto, uno e zero per l’appunto.
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Proprio allo zero, al vuoto e al nulla è dedicato il recente ‹Zerologia. Sullo zero, il vuoto e il nulla› (Il Mulino 2016), nato dalla collaborazione tra Claudio Bartocci, Piero Martin e Andrea Tagliapietra: un matematico torinese, un fisico padovano e un filosofo milanese alle prese con i problemi e le opportunità di rappresentare… il niente. Perché lo zero è il perno del sistema decimale, lo studio del vuoto è fondamentale nella tecnologia e nelle scienze naturali, dall’aspirapolvere al CERN di Ginevra… E cosa sarebbe la filosofia moderna senza le riflessioni di Heidegger o ‹L’essere e il nulla› di Sartre?
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Torniamo però allo zero, che dà simbolicamente nome al libro: trovata importante quanto il fuoco e la ruota ma sfuggente come il linguaggio, a cui del resto appartiene. Intuito già dai matematici babilonesi ed egiziani (e questi ultimi lo indicavano già con un cerchietto), probabilmente nasce nella forma in cui lo conosciamo in India: nel 628 per la prima volta viene trattato alla stregua di un numero vero e proprio, né positivo né negativo, nel trattato composto dal matematico Brahmagupta. Qualche secolo dopo, intorno al 1150, un altro studioso indiano dirà che il risultato della divisione di un numero per 0 è una quantità infinita (‹ananta-rasi›), paragonabile alla suprema infinità di Dio. Intanto, intorno alla metà del decimo secolo, lo zero arriva anche in Occidente attraverso la mediazione persiana e araba, passando dall’indiano ‹sunya› all’arabo ‹sifr›, da cui viene il latino medievale ‹zephirum›: zero appunto, ma anche cifra.
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Fin dall’inizio la scoperta di questo apparentemente modesto simbolo, di cui facciamo uso ogni giorno, è fortemente intrecciata anche con l’osservazione della natura e la riflessione filosofica. Perché, come ha osservato il sanscritista Frits Staal, l’India antica “‹reverberated with zeroes›”: in essa si sviluppano — dalle Upanisad alla filosofia buddista — la riflessione sul vuoto, la vacuità e il nulla (in vedico ‹kha› o ‹sunya›, da cui appunto deriva il nome zero). In Occidente, al contrario, per secoli regnò incontrastato l’insegnamento di Aristotele, che negava risolutamente l’esistenza del vuoto in quanto rifuggito sistematicamente dalla natura.
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Fin dall’inizio quindi i concetti di zero, vuoto e nulla appaiono saldamente intrecciati anche se non coincidenti, e come tali per molti versi si sono evoluti nei secoli. Allo zero matematico in fisica si può far corrispondere il vuoto: concetto anch’esso, come spiega bene nel suo saggio Piero Martin, molto meno semplice e pacifico di quanto sembri. Secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg infatti stati come il vuoto e lo zero assoluto sono assolutamente impossibili da raggiungere nel mondo fisico in cui viviamo. ‹The vacuum is not empty›: anche con le tecnologie più moderne, che utilizzano pressioni fino a mille miliardi di volte più forti di quella atmosferica, in un centimetro cubo così “svuotato” rimangono sempre milioni di molecole di materia. E se anche riuscissimo a tirarle fuori una per una rimarrebbe sempre qualcosa: luce, campi elettromagnetici, calore. Anche il vuoto quindi, proprio come lo zero, è un concetto astratto e un po’ di comodo, ma comunque estremamente utile alla scienza e alla tecnologia: basti pensare alla conservazione degli alimenti o a un banale aspirapolvere, ma anche agli studi che hanno permesso la scoperta del bosone di Higgs e delle onde gravitazionali, oltre a quelli che forse un giorno ci daranno reattori a fusione nucleare di nuova generazione.
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Tante cose concrete insomma: tutte ottenute in nome dello zero, del vuoto, del nulla. Perché, come scrive nel suo contributo il filosofo Andrea Tagliapietra, la macchina della conoscenza umana per costruire ha bisogno anche della “portentosa forza del negativo”: non c’è scrittura o disegno senza foglio o schermo bianco; non c’è musica senza silenzio, edificio senza spazio in cui svilupparsi. Forse tutto è venuto dal nulla ma, suggeriva Paul Valéry, il nulla traspare da tutto.
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ANNOTAZIONI E SPUNTI
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COMMENTO — È curioso che un articolo su questo tema (lo zero, il nulla, il vuoto) neppure lontanamente menzioni i concetti di “pulsione di annullamento” e di “fantasia di sparizione” elaborati negli anni Sessanta dallo psichiatra Massimo Fagioli. Il volume, di cui il testo costituisce una recensione, è ‹Zerologia. Sullo zero, il vuoto e il nulla›, degli autori Claudio Bartocci (matematico), Piero Martin (fisico) e Andrea Tagliapietra (filosofo), pubblicato da Il Mulino nel 2016. Una breve descrizione del volume e degli autori si trova sul sito dell’editore (https://www.mulino.it/isbn/9788815260420), e da questa si evince che Andrea Tagliapietra (il filosofo, dei 3 autori) insegna nell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, e sempre con Il Mulino ha pubblicato nel 2010 ‹Icone della fine› e (insieme a G. Ravasi, noto cardinale e sostenitore dell’egemonia cattolica sulla cultura), ‹Non desiderare la donna e la roba d’altri›. Non riteniamo dunque si possa risentire se lo definiamo “filosofo di orientamento cattolico”, e questo spiega molte delle omissioni riscontrate nell’articolo.
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•[ivi]• «[…] passando dall’indiano ‹sunya› all’arabo ‹sifr›, da cui viene il latino medievale ‹zephirum› […]»: la dizione ‹zephirum› — che in latino richiamava il nome di un vento leggero — è però di Fibonacci, si trova proprio nell’incipit del suo ‹Liber abbaci›; vedi P. Greco, ‹La scienza e l’Europa›, vol. I, ‹Dalle origini al XIII secolo›, cit. nella ‹Introduzione› (qui). È curioso che Fibonacci non sia neppure menzionato nell’articolo, mentre lo è ad esempio il matematico indiano Brahmagupta.
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[…] nel VI e nel V sec. a.e.v. […] i concetti di non essere, di vuoto e di nulla erano ampiamente sovrapponibili.
•[ivi]• «[…] luce, campi elettromagnetici, calore»: passi per la luce e i campi elettromagnetici, ma il calore, in assenza di molecole, in che cosa si concretizzerebbe?
•[ivi]• Nel testo originale: «[…] studi che hanno permesso lo [sic!] scoperta del bosone di Higgs […]» è un evidente refuso, dev’essere “la”; corretto.
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[…] il primo pensiero [del neonato] è quello di una non esistenza, la non esistenza della luce ‹in primis›, ma anche — se è vero che vista e udito sono in stretta connessione — quella dei rumori del mondo? In altre parole, il neonato crea in un primo tempo il buio e il silenzio. Il buio (come avviene nel sonno) è necessario per poter creare immagini, il silenzio (basta pensare alla musica, al canto, al linguaggio articolato) è la premessa necessaria per poter emettere e distinguere suoni, quasi avesse un corrispettivo nel foglio bianco sul quale lo scrittore traccia i suoi segni. Analogamente, possiamo ipotizzare che una sorta di silenzio interiore, e in genere la capacità di isolarsi dagli stimoli, è la necessaria premessa perché possano emergere immagini mentali e pensieri verbali originali. La fantasia di sparizione rende così possibile la creatività.
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http://www.unipd.it/ilbo/non-ce-nulla-meglio-niente
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