2018·02·11 - CorLettura • Manzi·G • La mandibola che ci invecchia

La mandibola che ci invecchia


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Nuove ipotesi su Homo sapiens
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Un reperto ritrovato in Israele porta ad anticipare di 50 mila anni l’uscita dei nostri antenati dall’Africa. E forse a retrodatare anche le origini della nostra specie
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di Giorgio Manzi
Corriere la Lettura — 11/02/2018 (domenica 11 febbraio 2018)


L’ultima notizia viene da una grotta del Monte Carmelo, il promontorio che si sporge verso il Mediterraneo dalle parti di Haifa, in Israele. Una porzione di ossa della faccia di un nostro antenato o antenata di quasi 200 mila anni fa, con quasi tutti i denti dell’arcata mascellare di sinistra, è stata rinvenuta in quella grotta (la Misliya Cave) e viene descritta e dettagliatamente analizzata in un articolo a firma di Israel Hershkovitz e una trentina di altri autori, comparso su una rivista scientifica di primo piano come «Science». A prima vista il resto fossile non sembra così ricco di informazioni, ma secondo gli autori i loro dati dimostrerebbero che non si tratta né di un Neanderthal né di un’altra forma umana arcaica (fra quelle da loro considerate), e che si possa parlare di ‹Homo sapiens›. Qui sta appunto la notizia. La morfologia, combinata con la datazione, indica che saremmo in presenza del più antico rappresentante dell’umanità moderna fuori dall’Africa, rappresentante cioè di una delle prime popolazioni della nostra specie che iniziavano a diffondersi a partire dall’originaria culla africana. E la data compresa tra 177 e 194 mila anni fa, affidabilmente ottenuta con tre differenti metodi quantitativi, ha qualcosa di sorprendente. Vediamo perché.

Per capire meglio, dobbiamo dire che qui si combinano almeno due diversi aspetti di primo piano per la comprensione del nostro passato nel tempo profondo: il tema delle migrazioni — o come preferisco dire io: delle diffusioni geografiche — e il problema assai dibattuto delle origini dell’umanità moderna, cioè del «quando» e del «come» si sia originata una creatura che si possa definire ‹Homo sapiens›. Una creatura che rappresenti cioè le origini dei primi nostri antenati del tardo Pleistocene che furono anatomicamente e, almeno in via potenziale, culturalmente «moderni»; in pratica, come noi. Sul primo tema — le migrazioni, o diffusioni — è arrivato di recente il bel libro di Guido Barbujani e Andrea Brunelli ‹Il giro del mondo in sei milioni di anni› (il Mulino). Ispirati da Italo Calvino — al quale riconoscono l’idea di farsi guidare da un testimone oculare sopravvissuto a vicende durate milioni di anni e che hanno chiamato Esumim (acronimo di «esseri umani in movimento») — Barbujani e Brunelli seguono il percorso dell’evoluzione umana in genere e poi della nostra specie in particolare, con attenzione al fenomeno delle ripetute espansioni umane che si ripetono da tempo immemore e che continuano ancor oggi negli scenari geografici di mezzo mondo.

Come dice il titolo, partono da circa sei milioni di anni fa, quando alcune scimmie bipedi africane intrapresero il cammino che ha portato fino a noi. Ma, come si sa, l’areale dei nostri antenati è rimasto a lungo quello, per milioni di anni: l’Africa orientale e meridionale. Compare poi, scimmia bipede fra le altre, il genere ‹Homo› (attenzione, siamo ancora ben lontani da ‹Homo sapiens›); si era intorno a 2 milioni e mezzo di anni fa. Sono proprio i più antichi rappresentanti di questa umanità primordiale che iniziano a fare cose nuove (o quasi), fra cui i manufatti del primo Paleolitico, e a rendersi protagonisti di un’inedita diffusione geografica che li porta anche fuori dal continente africano: fino all’isola di Giava e oltre, verso oriente; fino alla penisola iberica, a occidente.

Poi si entra nel mondo di ‹Homo sapiens›, a cui è dedicata la maggior parte del racconto di Barbujani, Brunelli ed… Esumim. E il libro diventa appassionante quando i nostri diretti antenati, i primi uomini «moderni», comparsi in Africa orientale intorno a 200 mila anni fa, iniziano una diffusione che li porterà dapprima a espandersi in tutto il continente per poi arrivare, passando perlopiù dal Sinai, a diffondersi e insediarsi in tutte (ma proprio tutte) le terre emerse del pianeta. In questa nuova «diaspora» extra-africana i nostri eroi incontrano altre umanità — probabilmente distinte a livello di specie, ma con le quali è ancora possibile qualche occasionale incrocio — e lasciano a noi come retaggio brandelli di Dna dei Neanderthal, degli ancora in parte misteriosi Denisoviani e forse anche briciole di genoma degli ultimi ‹Homo erectus› dell’Indonesia. Barbujani e Brunelli si spingono poi oltre, quando nel mondo di ‹Homo sapiens› (non ci sono più altre specie umane in giro) il fenomeno delle migrazioni diventa un intreccio di percorsi e il popolamento di certe aree avviene più e più volte da parte di popoli differenti: in Africa, in Eurasia, in Australia e nelle Americhe. Formidabile (e probabilmente a molti ben nota) la diffusione dei primi agricoltori e allevatori del Neolitico, della cui ricerca è stato pioniere indiscusso il grande genetista italiano di Stanford, Luigi Luca Cavalli Sforza, proprio uno dei maestri di Barbujani.

Insomma, la tendenza a diffondersi geograficamente è connaturata a noi umani sin dai tempi dei primi ‹Homo› e poi da parte della nostra specie, ‹Homo sapiens›. Sul tema si sono confrontati molti autori e, al di là della letteratura propriamente scientifica, in quella a carattere divulgativo fra gli italiani vanno ricordati lo stesso Barbujani, in ‹Europei senza se e senza ma› (Bompiani, 2010) e ‹Gli africani siamo noi› (Laterza, 2016), o Guido Chelazzi nel suo ‹Inquietudine migratoria› (Carocci, 2016). Non stupisce allora che in un sito come quello israeliano della Misliya Cave si possa trovare il resto fossile di un possibile ‹Homo sapiens› in un’epoca tanto precoce come quella indicata dalla datazione, intorno a 185 mila anni fa. Può sembrare, in effetti, molto vicina all’epoca della comparsa di ‹Homo sapiens› sulla scena evolutiva, fissata a circa 200 mila anni fa dalle ricerche degli ultimi decenni, sia quelle basate sull’evidenza fossile sia quelle a carattere paleogenetico (orologio molecolare). Si tratterebbe allora di concludere che una prima uscita di ‹Homo sapiens› dall’Africa fu parecchio più antica di quanto fino a oggi pensavamo, poiché i 185 mila anni fa (circa) del mascellare di Misliya Cave sono molto più remoti delle datazioni di altri siti con resti umani anatomicamente «moderni» della stessa area, come i 120 mila anni di Es Skhul (altra grotta del Monte Carmelo) o i 90 mila anni di Qafzeh (una caverna presso Nazareth).

Ma il problema che emerge da quest’ultima notizia e dai commenti fra gli addetti ai lavori è anche un altro e, come dicevamo, intercetta un problema cruciale per la comprensione del nostro passato e della nostra natura: «quando», ma soprattutto «come» siamo diventati ‹Homo sapiens›? Siamo comparsi come specie più gradualmente di quanto alcuni (me compreso) credono e, comunque, prima di quando la letteratura precedente suggeriva? Hanno forse ragione coloro che pensano di spostare le origini di ‹Homo sapiens› da 200 a 300 mila anni fa, magari sulla base dei risultati emersi l’anno scorso dal sito di Jebel Irhoud in Marocco? Io ritengo di no, ma staremo a vedere.


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ANNOTAZIONI E SPUNTI
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NOTA: la fonte (secondaria) non riporta evidenziazioni in corsivo; le abbiamo inserite a nostro giudizio (principalmente titoli di opere e denominazioni in lingua latina).

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[] https://spogli.blogspot.it/2018/02/corriere-la-lettura-11.html
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