1979 - PeSU n. 2 • Poggiali·A (Fagioli malie strega)

Le malie della strega


✩ (Arkbase)


di Alessandro Poggiali
Psicoterapia e scienze umane n. 2 — 1979 (aprile-giugno), pp. 35-51.


Tre libri scritti di sua penna, in vario modo riediti [1], altri quattro che variamente si legano ai suoi in una dinamica emotiva e culturale di cui ci parlano con passione.

Quattro anni di cosiddetti seminari, affollatissimi e con successo crescente, dove si raccontano fantasie, sogni e dove Massimo Fagioli interpreta.

Per converso, nonostante sia col nome della psicoanalisi che accade tutto ciò, il silenzio pressoché totale da parte degli addetti ai lavori di ogni scuola e tendenza.

Sono convinto che Fagioli sia qualcosa da prendere sul serio. A mio giudizio egli si inserisce totalmente nell’ambito della tradizione psicoanalitica, ne ripercorre alcuni luoghi fondamentali, rappresenta esemplarmente un’anima presente da sempre nelle vicende evolutive della psicologia dinamica. Accusarlo di provincialismo significherebbe non voler vedere ciò che è possibile vedere già nel cuore delle metapsicologie originarie e nei loro sviluppi, sotto tutte le latitudini.

Quanto al giudizio di opportunismo culturale nei confronti del marxismo mi pare anch’esso illegittimo [2]. Semmai c’è da dire che egli su questo terreno, come su altri, va a scivolare con coerenza nell’ideologia, interamente preso com’è dall’immagine che la tradizione da cui proviene sia falsa non perché e nella misura in cui ripercorra le strade ineffabili della ontologia, non perché abbia l’ambizione di dirci la Verità sull’uomo, ma perché non dice la Verità vera.

È infatti da qui che si deve partire per capire Fagioli. Occorre precisamente entrare in merito al processo di risoluzione della psicoanalisi in un corpus antropologico, ed esplicitare le conseguenze possibili e in atto di questa tendenza, fino a valutare il ruolo da essa giocato non solo nella storia della psicoanalisi, nella costruzione della teoria e nelle varie forme della sua autocomprensione, ma anche sul versante dei confronti fra teoria psico-analitica e l’intero orizzonte culturale, soprattutto su quello intricato dei confronti fra psicoanalisi e marxismo.

È noto come siano presenti in tutta l’opera di Freud i lineamenti, più o meno articolati ed espliciti, di una vera e propria antropologia complessiva, clamorosamente coagulata soprattutto in alcune opere (si pensi a «Totem e tabù»), ma — quel che è più rilevante — presente anche dove pare si sia più vicini alla materialità della situazione clinica. Scritto dopo scritto, in un quadro di apparente frammentarietà, si procede alla costruzione di un edificio dai contorni netti; attraverso un vero e proprio work in progress, si delinea un quadro di assunti relativamente a cosa sia o non sia l’uomo, che riguardano la totalità della sua fenomenologia esistenziale: vita emotiva e istintiva, attività cognitive, amore e morte, formazione e riproduzione della cultura e della società.

[A·8]• ~!
Tale antropologia ha da sempre vissuto in una situazione estremamente contraddittoria. Da un lato Freud ne ha spesso sottolineato il carattere congetturale e non definitivo (e lui stesso nel corso della sua vita ha più volte modificato in vari modi tali assunti); dall’altro, però, se si guarda più da vicino la qualità di queste modifiche, ci si rende presto conto che esse si sono prodotte senza mai mettere in discussione gli assunti di valore ultimi e impliciti, che si mantengono uniformi, inscritti in una visione del mondo omogenea e culturalmente specifica, dall’originario «Progetto di una psicologia» fino agli ultimi scritti. Anzi si può dire che siamo davanti a qualcosa che più che modificarsi, segue una linea coerente di sviluppo. Cosicché la modificabilità diviene nei fatti un criterio che vale solo ‹all’interno› di una scelta di campo definitiva, che, semmai, costruisce progressivamente la propria specifica organizzazione interna. Il «pessimismo» di Freud non consente di essere risolto nella qualità della socializzazione di un piccolo borghese ebreo nato nella metà dell’ottocento, o nella guerra, o nelle dolorose vicende familiari. Siamo comunque chiamati a misurarci con la clinica. Siamo chiamati al confronto con qualcosa che ci viene dato come un terreno oggettivo, capace di parlare il «nudo linguaggio dei fatti».

Il pessimismo è soprattutto — in Freud e per Freud — un assunto che riceve ‹dal basso› la propria legittimazione e coerenza, che ‹gli› si propone consuntivamente come l’unico approdo possibile. Tutto lo sviluppo della metapsicologia lo conferma ogni volta, e ogni volta esso pare emergere come l’unica possibile verità; come la Verità sull’uomo, quando non si cerchi consolazione nell’illusione. Dalla fiducia tutta illuministica nella terapia e nella migliorabilità dell’ordine sociale degli anni del primo decennio del ’900 [3] fino alla proposta del carattere illusorio, «sostitutivo» di ogni politica con intenzioni modificatrici, espressa nel «Disagio nella civiltà» (1929), e del carattere illusorio della stessa immagine di guarigione, proposta in «Analisi terminabile e interminabile» (1937), il pessimismo si fonda rigorosamente attraverso un processo che investe il piano della elaborazione e della strutturazione della metapsicologia. Via via che si penetra nell’intimo dell’uomo, nel suo profondo costitutivo e originario, via via che si taglia il legame con «l’esterno» nel definirne la dinamica psichica — dalla teoria del trauma a quella della sessualità infantile, all’istinto di morte — via via che si vede l’uomo per quello ‹che è›, la vita dell’uomo assume le coloriture di un destino tragico [4].

Accade così che la qualità dell’avvenimento relazionale all’interno del contesto analitico viene definita da una visione del mondo inconsapevole che investe di senso e codifica, propone uno statuto che si vuole naturale e oggettivo, ma che in realtà rinvia all’immagine dell’uomo e ai possibili rapporti fra uomini da essa consentiti. E tanto più si costituisce il peso cospicuo e il carattere «forte» di questa antropologia quanto più essa tende a disporsi sul piano dell’accessorio, del contingente, quanto più pare ricevere legittimità solo a partire dalla necessità di elaborare ipotesi sulla clinica, così che Freud ha l’agio di evitare di presentarsi come un filosofo che imbraca il mondo — uno dei tanti — e il suo pessimismo di insinuarsi con una imperatività che dà la sensazione di provenire tutta da ciò che il dato clinico, più volte interrogato, consente di proporre. La presenza rilevante dell’antropologia si impone così proprio per le modalità del suo occultarsi, per ciò che nelle intenzioni non la propone come rilevante.

Ora questo statuto ambiguo e dissimulato dell’antropologia in Freud — e proprio in Freud — comporta a mio avviso precise conseguenze. Infatti, se è sufficientemente nota la sua presenza nel corpus originario della psicoanalisi, meno chiarezza mi pare ci sia sul fatto che si tende a proporre con forza, già in Freud appunto — al di là di ogni prudenza e intenzione manifesta — un’immagine del sapere psicoanalitico in cui il tessuto delle ipotesi antropologiche definisce la psicoanalisi a maggior titolo di altri aspetti (il metodo interpretativo e la sua logica). In altri termini, da sempre la psicoanalisi coltiva la tentazione di essere una teoria della verità antropologica.

Si tratta di qualcosa che occupa uno spazio centrale, con conseguenze immaginabili, nelle scansioni, fratture fra scuole, già nel cuore dei dissidi originari. Non solo ma, oltre a coinvolgere di molto l’immagine della psicoanalisi presso gli stessi psicoanalisti di professione, risolve senza residui l’immagine collettiva che di essa se ne ha, la sua inscrizione nel senso comune, con conseguenze tanto complesse quanto poco chiare. Si tratta però anche, ed è questo un punto che ritengo della massima importanza, di una tendenza che agisce nel mezzo di esorcismi sotto forma di rinvii alla «prudenza freudiana», o di petizioni di principio il cui perentorio rinviare all’ovvio («la psicoanalisi non è la formulazione di una teoria della verità antropologica») [5] equivale ad un autoaccecamento sulla realtà delle cose. Quel che rimane nell’ombra è la rete delle implicazioni che sul piano teorico e pratico si è determinata a partire da questa definizione della psicoanalisi.

Soprattutto diventa precaria la possibilità di una elaborazione delle contraddizioni che ci si trovano davanti.

Si può dire che alcuni dei momenti fra i più significativi del movimento psicoanalitico — anche rappresentati di volta in volta da chi si è trovato o è stato posto ai margini, o addirittura ne è stato espulso — sono caratterizzati dai problemi posti dall’avere a che fare con una antropologia complessiva e con i problemi che essa pone in relazione ai suoi contenuti rispetto alla pratica analitica.

Queste considerazioni, forse eccessivamente lunghe e schematiche ad un tempo, mi sono state necessarie perché ritengo che anche Fagioli vada collocato in questo spazio, e che non si possa dire alcunché su di lui se non si parla per intero di tutta la psicoanalisi. Egli incarna per eccellenza una delle modalità tipiche di uscire dalle difficoltà sopra accennate. Una modalità che consiste precisamente nella riorganizzazione e riformulazione del quadro onto-antropologico, già assunto come primum movens e come luogo dove si gioca la legittimità della attività analitica e ogni sua possibilità. Tale operazione si impone — al di là dei contenuti sui quali si esercita — a partire dall’instaurazione di un rapporto vincolante fra «Discorso sull’uomo» e psicoanalisi. Di tale Discorso essa non è che l’inveramento e il dispiegamento adeguato. In questo connubio essa porta in dote alla visione del mondo la propria subalternità che continuamente si mostra nella richiesta e nell’ottenimento di senso. Come tale la prassi analitica non c’è, non sa niente. Ogni cosa che essa può dire, è detta altrove e da questo altrove riceve senso. In questa prospettiva, ciò che l’attività analitica non possiede ritorna ad essere — preanaliticamente — una mera insufficienza. Ciò di cui invoca il possesso, è ciò che da sempre si desidera possedere o si ritiene di possedere: la possibilità di una qualche inscalfibile pienezza di senso.

L’esordio di Fagioli da questo punto di vista è emblematico. Ci viene incontro con qualcosa che ha l’alone della scoperta. Anche questa volta la scoperta viene ‹dal basso›; anche in questo caso ha a che fare con la clinica, con la prassi analitica. Nel primo capitolo di «Istinto di morte e conoscenza», Fagioli ci parla di una fantasia incontrata più volte nei suoi pazienti. Si tratta di una fantasia che, a suo avviso, non è stata presa sufficientemente in considerazione, nel senso che non è mai stata oggetto di elaborazione autonoma e specifica. Si tratta di una tendenza a far sparire, ad annullare… Nel capitolo successivo inizia la elaborazione metapsicologica di questa rilevazione clinica. Gli interlocutori sono Freud — soprattutto quello di «Al di là del principio del piacere» — e, naturalmente, M. Klein.

Comincia così un dialogo speculativo nel quale Fagioli arriva a collocare questa fantasia, che prende il nome di Fantasia di sparizione, in una specifica dinamica della nascita, per giungere — e questo è il punto centrale — ad una ridefinizione dell’istinto di morte attraverso la quale egli cerca di recuperare e costruire quell’intreccio tra vita e morte che nella metapsicologia kleiniana e soprattutto freudiana rischia continuamente di perdersi, e si perde nella ipostatizzazione e nel dominio scisso di uno dei termini della relazione (la morte come «pulsione» attiva, autonoma e, in ultima istanza, dominante).

Cosa accade? Accade che ‹nello› spazio della speculazione metapsicologica — ‹nel› secondo capitolo di «Istinto di morte e conoscenza» — questo compito viene portato a termine nel senso che in questo libro — in questo capitolo — ‹si dimostra e si scopre› niente di meno che «la nascita dell’uomo dopo millenni di negazioni» [6]. ‹In esso si dimostra che la «nascita» e la «vita» esistono›. Esse ‹vi› trovano la loro legittimazione. ‹Di conseguenza›, trova legittimazione il dato clinico di partenza. La rilevazione nella situazione analitica si distende nel costrutto metapsicologico ed ‹esso ne dà ragione›. La fa nascere, la fa esistere.

Poi da qui viene il resto. Dalla prima edizione di «Istinto di morte e conoscenza», a «La marionetta e il burattino» e poi a «Psicoanalisi della nascita e castrazione umana», passando per il territorio dei seminari, nel frattempo iniziati, fino alla prefazione e alle note aggiunte della seconda edizione di «Istinto di morte e conoscenza», siamo davanti ad un crescendo, in cui le ragioni della metapsicologia di Fagioli si fanno dominanti. Divorano tutto. Questo luogo, progressivamente, diventa la cifra splendente di una fondamentale verità ontogenetica e antropologica, che si vuole di segno opposto a quella freudiana e contro le pretese di verità di quest’ultima. Da qui in avanti Fagioli mette in scena con il ‹suo› Freud e i ‹suoi› freudiani il gioco del «pugno più in su», in tema di Verità. A chi ne dice di più. A chi la dice più vera.

[A·20]• ~!
Nello stesso momento il senso complessivo della prassi terapeutica e uno per uno tutti i momenti critici del suo discorso su Freud e sulla tradizione psicoanalitica sono ‹dedotti› dal II capitolo di «‹Istinto di morte e conoscenza›». L’antropologia freudiana espressa nella teoria della libido e degli istinti viene ribaltata: nelle prime 100 pagine di «‹Istinto di morte e conoscenza›» si propone una «scena dell’origine» che è il complementare di quella freudiana. Il neonato di Fagioli non è un polimorfo perverso dilaniato da una aggressività cieca e distruttiva e poi alla ricerca dello specchio precario in cui ricomporre il caos devastante di pulsioni parziali che lo attraversa come i terremoti e i dinosauri percorrevano il mondo delle origini. Il suo neonato ‹sa›, possiede un sapere. Un sapere formatosi nella connessione fra il feto e il liquido amniotico. Un ‹sapere› che è questa connessione. Il sapere, e il modello di ogni sapere «autentico», che ogni volta nasce strappato alla tentazione della morte, della pazzia; che ogni volta sono la tentazione di non riconoscerlo, di negarlo come «sapere specificatamente umano»; e che sono — nell’ontogenesi che ci viene proposta — il rifiuto di nascere, la tentazione di «far sparire» la nascita. Da qui inizia tutto. Fagioli «nomina» l’origine e, ‹di conseguenza›, dà senso al mondo. Le prime cento pagine di «Istinto di morte e conoscenza» finiscono per diventare il fonte battesimale dell’umanità.

Cosa accade? Accade che il tentativo di superare la contraddizione presente in Freud fra l’antropologia della sua metapsicologia e realtà della prassi terapeutica [7] lo porta ad imboccare la strada, a sua volta contraddittoria, della formulazione di una metapsicologia alternativa che, in ‹relazione› alla definizione dell’uomo che essa dà, permetta di fondare la prassi analitica come un processo di formazione. È naturale a questo punto che il perno del suo lavoro di rielaborazione metapsicologica sia l’istinto di morte, cioè il luogo che in Freud propone le maggiori difficoltà in rapporto al versante della prassi analitica.

Di esso Fagioli propone una formulazione che ne fa l’elemento fondamentale di una processualità in cui la soggettività si forma nel ritrovarsi («inconscio mare calmo») e si ritrova a partire dalla lotta vincente di una memoria del rapporto — sempre attivata dalla realtà presente del rapporto — sulla negazione del rapporto («Istinto di morte come fantasia di sparizione del rapporto»). In tal senso l’istinto di morte ‹si riunisce› alla vita e pare valorizzabile nella situazione analitica; ma, appunto, ancora una volta interamente ‹già dato›. L’operazione avviene tutta sul versante della metapsicologia e la prassi analitica, in quanto totalmente ‹dedotta› dal quadro ontogenetico proposto, perde ogni autonomia cognitiva, logica e metodologica, e possibilità di fondare su se stessa questa autonomia. La scena delle origini assorbe tutto in sé, si ipostatizza in una ontologia. La possibile proposizione critica, problematica e congetturale di un quadro trascendentale di ipotesi antropologiche, ricostruito a partire da una esplorazione riflessiva sui termini della prassi analitica, che sia ‹anche› — come tale — operazione critica sul freudismo e sulle sue aporie, finisce per assumere le sembianze fascinose di una mitologia delle origini rispetto a cui la nozione di prassi analitica, come processo di formazione, è eterogenea e incompatibile.

[A·23]• ~?
La verità antropologica progressivamente domina il campo. Nel corso degli anni la scoperta diviene La Scoperta. Il no a Freud è tutto nei confronti dell’antropologia freudiana; [sic!] La risposta è altrettanto totalizzante e pervasiva. Questa volta scopertamente pervasiva. Anche qui viene investita l’intera fenomenologia esistenziale dell’essere umano. Anzi, la scena delle origini (Vita intrauterina e vicende della nascita) gioca un ruolo decisamente più importante che nel freudismo, nel senso preciso che, senza questa immagine, verrebbe meno la possibilità della teorizzazione successiva e della prassi terapeutica.

Esse, per come vengono proposte, non si legittimerebbero; così come non si legittimano le pretese terapeutiche del freudismo, qualora non possano restare in piedi le ipotesi sull’uomo che esso propone e propone come vere.

Non intendo addentrarmi nella discussione dei contenuti della metapsicologia di Fagioli. La «sua creatura», la sua «scoperta», per come la propone, è al di fuori di ogni possibile discussione razionalmente vincolante, è fuori da ogni assenso o dissenso che possa dimostrarsi per un qualche argomentum; perché è al di là — ipostatizzata nell’immagine mitica — di un ambito propriamente cognitivo. Questa dimensione, per colui che ne esperisce la pregnanza emotiva, ha di solito il carattere autoevidente delle «verità dell’anima», per converso resta alcun che di astratto per colui che è fuori dalla sympatheia che il racconto sollecita come unica modalità per essere avvicinato [8]. Per altro sono del tutto d’accordo con chi pensa che di metapsicologie ce ne siano fin troppe [9]. Credo semmai che l’unica strada possibile su questo terreno sia quella, per esempio, che R. Laing ci propone con il suo recente «‹I fatti della vita›» (Torino 1978), che ha il pregio di liberare «rappresentazioni» del tutto consapevoli di sé e mai illuse di cogliere oggettivisticamente una qualche sostanza. Solo a queste condizioni il discorso possiede una ricchezza che non rischia mai la fastosità onnipotente.

Piuttosto, al di là di questi contenuti e di queste immagini, restando nell’unico terreno che ci è concesso, mi preme porre l’accento sulle conseguenze dell’assoluto primato assunto in Fagioli dall’antropologia, e da una replica a Freud e al freudismo che si svolge interamente su questo terreno.

Accade infatti che l’ambivalenza e la problematicità, sempre presenti in Freud relativamente alla valenza e al ruolo dell’antropologia nello statuto teorico-pratico della psicoanalisi, si perdono totalmente. Fagioli, violentemente reattivo alla tradizione che lo ha allevato, e senz’altro proprio per la qualità del suo no ad essa, finisce per fissarla in una immagine dalla quale, a sua volta, non esce, e da cui riceve l’impronta per ciò che propone.

Nel negare i contenuti dell’antropologia psicoanalitica classica, in quanto ‹sono› la psicoanalisi, e nel negare con ciò ogni possibile valore alla tradizione psicoanalitica, si consacra l’approdo del sapere psicoanalitico (e proprio attraverso qualcosa che tende a presentarsi come massimamente trasgressivo) alla terra da sempre matrignamente promessa del sapere tradizionale; al cuore di questo sapere, alla costituzione di una ontologia, là dove esso dipana onnipotente ogni interrogativo, dove risolve ogni scarto.

Di più. Se in Freud, nonostante la contraddittorietà che abbiamo sottolineato, c’è pur sempre la possibilità di riconoscere la priorità del metodo interpretativo su tutto il resto, Fagioli segue senza incertezze la costruzione della sua visione del mondo, rispetto a cui l’interpretazione diviene chiaramente momento secondario; anzi da essa viene dedotta per parlarci della sua verità. Il momento interpretativo torna non solo ad essere ermeneutica, disvelamento, ma, più in là, riscoperta del Vero, riconduzione ad esso. È quel che accade ai suoi seminari, dove Fagioli, coerentemente, interpreta sogni e fantasie «a libro aperto»; o meglio, dove il testo che restituisce il senso in quanto sigillo del vero è letteralmente ciò che lui ha scritto relativamente a ciò che l’uomo è o non è. Qui interpretare fuori delle peculiarità psicoanalitiche (ma non fuori del tutto dalla tradizione psicoanalitica) è innanzitutto riconferma del contenuto di verità degli a priori che consentono l’interpretazione medesima, il luogo dove il Vero si dimostra e si autoimpone. Ecco che la «guarigione» riacquista, senza averle mai perse, suggestioni potenti, rimandandoci all’idea possibile di un percorso ascendente il cui approdo si identifica con un risarcimento pieno e definitivo che fa il paio con le fantasie onnipotenti di chi lo reclama; l’utopia si perverte nella realizzazione verbalistica di sé ed il processo terapeutico inclina verso le cadenze di una catechesi imperiosa. Lui, Fagioli, ne è il tramite, il sacerdote. Classicamente si pone subalterno (sub-jectum), a ciò che domina la scena: l’impersonalità delle categorie; Negazione, Inconscio mare calmo, Fantasia di sparizione. Le categorie della sua metapsicologia gli stanno al di sopra: res divinae atque naturales, ed egli — secondo abitudini freudiane — conquista progressivamente per sé il ruolo di gran funzionario delle medesime. La stessa insistenza proposta soprattutto nei seminari sulla necessità di lavorare, l’enfasi sulla fatica e l’impegno lungo e difficile, che vorrebbero porre l’accento sulle trappole dell’immediatezza, a partire dal fatto che l’antropologia domina il campo e fissa anche i termini del processo, finisce, oltre a valorizzare enormemente il carisma di Fagioli e a creare un clima severo ed espiativo, col rafforzare i più nella fiducia della conquista della meta.

[A·30]• ~!
Va detto anche che qui si compie la perdita di ogni possibilità per la psicoanalisi di preservarsi come sapere povero, «inquietante e dell’inquietante». Il suo perenne oscillare sul filo che separa il fragile e precario nuovo che essa ci propone — il di ‹meno› rispetto al ‹di più› di un sapere millenario — si traduce d’un balzo in un connubio felice con ciò che di questo sapere maggiormente la seduce e la minaccia. Il ricorso alle «informazioni della strega» [10] esce dai confini di un uso controllato. La complicità delle malie che ci portano dove non ci è concesso, diventa il dominio assoluto — ‹assai› «perspicuo» e ‹assai› «dettagliato» — di qualcosa che evocato prende la mano e detta legge. Detta ‹La› legge. Perché questo è per l’appunto l’aspetto più visibilmente contraddittorio di quanto sta accadendo a Fagioli. Il confronto con il «drago» della istituzione psicoanalitica lo conduce a insediarsi là dove essa trova le ragioni del proprio potere. Egli finisce per affidare alla sua «scoperta», la capacità di decidere sul come e sul perché si è o non si è analisti.

Di nuovo una metapsicologia ontologizzante si pone come il discrimine al di là del quale non si dà l’analisi, non vi è garanzia per l’analisi. Si ripercorrono così i termini di una vicenda già percorsa e nota e nello stesso istante si assume una posizione oggettivamente di retroguardia rispetto a tendenze e fermenti attuali dello stesso campo psicoanalitico «ufficiale», freudiano e no. Il privilegiamento della metapsicologia è infatti fra i motivi ‹interni› alla psicoanalisi, che storicamente e a maggior titolo, hanno contribuito alle ragioni della sua specifica istituzionalizzazione e poi alla riproduzione e legittimazione delle istituzioni e del suo potere. Non è un caso che alcune delle considerazioni espresse da Freud in «Per la storia del movimento psicoanalitico» si adattino perfettamente, al metodo delle strategie adottate da Fagioli nei confronti dei suoi critici: chi nega non ha capito, chi non ha capito «resiste» chi «resiste»… è come un paziente nevrotico. Non è un caso che la passione intransigente della sua critica all’identificazione non riesca a salvarlo dalla marea di gergo che gli monta intorno. La strega — appunto — si vendica.

È il caso di dire che l’inganno giocato dalla onnipotente povertà freudiana sorte ogni possibile effetto. Le ambizioni covate sotto le asciuttezze del pessimismo lasciano gli ormeggi e si traducono nella proposta clamorosa del possesso raggiunto e raggiungibile di una pienezza sicura.

Ma perché, viene da chiedersi, scandalizzarsi per la proclamazione di questo possesso? Non è affermato, oltre ogni possibile sobrietà, anzi a partire dalle mascherature che essa consente, anche dalla gran parte di una intera tradizione culturale, fatti salvi solo pochi, resistenti e quasi silenziosi dissensi?

Sicuramente il gran parlare di Fagioli mette a giorno brutalmente qualcosa che, occultato dalle severe vesti dello scetticismo, preme da ogni parte. Così come nei suoi seminari si svolge pubblicamente una scena probabilmente replicata infinite volte, protetta dalle percezioni complici della coppia analitica, nel chiuso degli studi di insospettabili maestri di disincanto. Colpisce in questo senso il silenzio intorno a Fagioli. La sensazione di una impudicizia imbarazzante provata da molti, la chiacchiera privata su di lui fra addetti ai lavori, e persino gli onori ambigui delle terze pagine (il luogo per eccellenza di ciò che non ha uno statuto definitivo, di ciò che viene espulso e dalla «cronaca» e dalla «cultura»), tutto questo ci parla delle segretezze di un costume diffuso, di dolci anestesie, o scotomizzazioni violente, di vizi privati e pubbliche virtù; comunque di tentazioni da cui nessuno è immune. E più in là, il fastidio reattivo nel valutare i toni delle atmosfere che gli ruotano intorno, ci sollecita a prendere in considerazione il punto fra tutti che fa più scandalo. Fagioli parla — appunto — di guarigione. E questo è, esemplarmente, un nodo contraddittorio e difficile di tutto il freudismo. Qui più che altrove le cose sfuggono a quella compostezza raggiunta continuamente proposta dall’immagine pubblica della psicoanalisi. Qui non ci si può nemmeno abbandonare al narcisismo dei pessimismi freudiani, e più ancora kleiniani o lacaniani. Qui si deve rispondere ad una domanda pressante. Questa domanda a molti non lascia scampo e, fra coloro che accolgono l’invito, spesso si salvano solo quelli per i quali l’approdo alla vita comporta la rimozione della morte.

Nell’ultimo numero della Nouvelle revue de psychanalyse, dedicato monograficamente alla Idea di guarigione, Pontalis propone alcune considerazioni non nuove ma ancora attuali: «ma la concezione di un masochismo originario, introdotto precisamente come «problema economico» e soprattutto l’incontro con una forza che fa del negativo dell’inconscio una potenza dell’antivita, un desiderio del non desiderio, una tale ostinazione non costringe ad interdire ogni possibilità di guarigione? Quale che sia il contenuto che gli si dà. Un medico che credesse, ostinatamente se posso dire, alla pulsione di morte non avrebbe che da chiuder bottega. Ci sono degli analisti, soprattutto americani, che per metter capo alla stessa conclusione, ed è perciò, dell’istinto di morte, non ne vogliono sentir parlare» [11].

Certo che questi analisti non sono solo americani e la prospettiva prestigiosa in cui si muove Pontalis gli concede poca attenzione per i paesaggi delle basse pianure, per la «civile» impassibilità di chi non sa letteralmente quel che fa, di colui che vive la sua giornata amministrando con casuali alchimie le umanisticherie e i positivismi [12] — appunto: gli «arsenali» della vita di fronte agli «arsenali» della morte [13] — che gli vengono proposti dai canoni di un sapere morbidamente adagiato sulle proprie scissioni.

Di queste scissioni Fagioli tenta una composizione con le armi del suo arsenale naturalistico e sostanzialistico. Egli prende la parola di fronte a chi, costretto a mascherare l’onnipotenza dei propri desideri, è costretto a desiderare il nulla [14].

Questi luoghi della tradizione psicoanalitica, e non solo psicoanalitica, trovano in Fagioli la loro misura, mostrano, per il suo tramite, la loro filigrana e, nello stesso momento, gli esiti ideologici e contraddittori del suo appassionato discorso rivelano la coerenza dell’impulso che li produce.

Su un altro punto mi pare importante portare brevemente la discussione. È noto che Fagioli rivendica la possibilità di un confronto positivo con Marx e più ancora una comunanza di prospettive con il complessivo progetto marxiano. A mio giudizio, anche su questo terreno si ripropongono le peculiari contraddizioni del discorso di Fagioli e le modalità attraverso le quali esse si connettono a quelle dell’intero campo psicoanalitico.

È indubbia la presenza di una lunga tradizione in cui un Freud emancipato e liberatorio viene disinvoltamente coniugato ad un Marx teorico del comunismo e dell’alienazione. È altrettanto indubbio che questa tradizione porta con sé il peso di grosse ingenuità e di letture molto approssimative, o comunque datate, in cui Marx e Freud, più che quello che sono, paiono essere delle incarnazioni di desiderio. Sia di Marx, e ancor più di Freud, vengono valorizzati degli aspetti non centrali della loro produzione teorica, affidati a momenti del loro lavoro che con poca legittimità teorica e filologica finiscono per risolvere interamente sia Freud che Marx.

[A·41]• ~!
Ora è proprio rispetto a questa tradizione, e a ciò che essa individua come terreno comune fra Marx e Freud, che Fagioli, e con lui Armando, non solo negano questo spazio comune, ma, soprattutto, rivendicano per sé (per la teoria fagioliana) la legittimità di questo incontro con Marx. Sulla negazione di questo spazio comune non ci sono dubbi. Freud — restando sul terreno dell’antropologia — non dà nessuna possibilità — né lui l’ha mai rivendicata, almeno dal 1920 in poi — per essere fungibile nella costruzione di una qualche immagine di emancipazione. La nozione, nella misura in cui è derivata dallo storicismo hegelo-marxista, è eterogenea alle categorie su cui si fonda la visione del mondo freudiana e alla definizione che da essa discende della società e del rapporto individuo-società. L’idea di una conoscibilità e fattibilità razionale della storia è estranea al pessimismo idealistico freudiano, alle cadenze hobbesiane della sua filosofia della storia [15]. L’incompatibilità è radicale e su questo piano non consente nessuna scorciatoia interpretativa. Peraltro — sia detto per inciso — sono assai difficoltosi, a mio avviso, anche quei tentativi di possibile accostamento fra Marx e Freud — sicuramente più scaltriti di quelli che si giocano in casa delle visioni del mondo — che si propongono insistenti e fascinosi all’orizzonte. Mi preme sottolineare questo punto perché da troppe parti i nomi di Marx e Freud, e con i loro quello di Nietzsche, vengono collocati in un unico spazio, in nome di un denominatore che li accomunerebbe in quanto pensatori «critici».

[A·42]• ~ⁿ?
Cosa che, forse lecita per taluni aspetti, comporta che si perdano di vista delle differenze fondamentali e soprattutto l’irriducibilità del progetto marxiano non solo ad attività critica in quanto disvelamento, ma anche — sul versante di un confronto con Freud — ad attività critica in quanto decostruzione-costruzione secondo i termini dell’«operari» freudiano [16].

Ora se Fagioli, ed esplicitamente Armando [17], propongono i termini di fondo della incompatibilità fra l’antropologia freudiana e quella marxiana, ripercorrendo anche spunti critici presenti in molta critica marxista alla psicoanalisi, nel volersi collocare accanto a Marx e al posto di Freud, si ha la sensazione che lascino inalterata l’immagine di Marx, ereditandola tutta intera così com’è da quella tradizione verso cui sono critici intransigenti, Marx seguita così a fermarsi nello spazio angusto in cui lo relegano gli entusiasmi dei freudiani emancipatisti. Quale è questo Marx? Si tratta del Marx soprattutto indispensabile agli ontologi di sinistra, indispensabile a coloro che sono «marxisti» e a «sinistra» in nome di una «natura umana» da realizzare. Il teorico della rivoluzione, più che quello che scrive sul modo di produzione capitalistico. Il Marx per il quale non solo la storia è fattibile ma ha anche un senso; per eccellenza teorico dell’alienazione, e quello per cui tale alienazione si ricompone nelle vicende di una storia teleologicamente orientata verso il comunismo inteso come «realizzazione dell’uomo», «unificazione dell’esistenza e dell’essenza dell’uomo». Il Marx che, secondo le parole di Fagioli: «… nonostante duemila anni di pensiero scisso tendente all’annullamento e alla negazione dell’uomo, riesce a rifiutare la menzogna, riesce a proporre ‹verità umane›» [18]. E più in là — e questo è un aspetto meno appariscente ma molto importante — un Marx a tutto fondo, fissato in una immagine dove si sublima integralmente la complessa faticosità di un costrutto teorico irto di difficoltà, di spessore e di contraddizioni. Il Marx che secondo le parole di Armando: «‹ha indicato la strada della soddisfazione del desiderio› quando ci ha descritto il funzionamento della logica capitalistica… sottraendola alla tana della sua naturalezza» [19]. Questo pare ancor meno possibile oggi quando l’immagine di Marx si fa più difficile; nel momento in cui il presente apre difficoltà mai viste nel tessuto della sua opera, e nel momento in cui se ne possono mettere in evidenza aspetti così poco disponibili verso gli approdi apologetici ad una rivoluzione a portata di mano. Mi pare esemplare che, a questo proposito, Armando nel suo scritto, vada a cercare legittimazione per questo Marx, nel Tronti inscalfibile di «Operai e capitale» [20] e che le difficoltà che oggi incontra Marx acquistino per lui esclusivamente l’aspetto dell’edulcorazione maligna, alle cui spalle stanno — ovviamente — le persecutorie alchimie della famigerata «scienza borghese», sulla quale — ancora ovviamente — Fagioli ha detto una parola definitiva, spiegandone l’arcano [21].

Ora se è comprensibile che il primato dell’antropologia in Fagioli detti i termini di una lettura di Marx in cui l’antropologia afferma i suoi privilegi, si deve dire che Marx diventa un passe-partout idealistico come tanti. E lo diventa proprio nel momento in cui se ne porta alla ribalta «l’interesse per l’uomo» e se ne fa una fonte di «verità umane». Se la rivoluzione ritorna ad avere a che fare con la «natura umana» nel senso di essere possibile ‹solo se la natura umana è modificabile[22], allora la storia riacquista le cadenze di un processo dotato di senso. Un senso già dato, che sta altrove: appunto nel luogo dove ‹si dimostra› che la natura umana è modificabile. Ma il concetto di storia come processo di formazione non implica a nessun livello quello per il quale la storia ha un senso. Anzi logicamente lo esclude. Mentre il primo concetto è estraneo alla proposizione di un’antropologia costitutiva, nel secondo è questa che fissa il senso possibile della storia. Le sue vicende sono interamente già date e descritte e si scandiscono secondo una ragione che è la ragione della organizzazione interna della costruzione antropologica.

In altri termini Marx relega in una dimensione non primaria e tanto meno fondante, almeno dalla Ideologia tedesca in poi [23], la tematizzazione di quella natura umana dove invece Fagioli gioca tutte le sue chances. E in questo passaggio non c’entra l’insufficienza o il ritardo storico delle sue categorie psicologiche. Esso avviene per una scelta metodologica, che è il risultato di una maturazione teorica e politica.

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Non è che a Marx non escano più dalla penna riflessioni su questo tema, piuttosto, si producono come elaborazioni implicite rispetto ad un altro fondamentale lavoro. A costo di essere didascalici, prendiamo i due testi marxiani più carichi di riflessioni antropologiche: i Manoscritti del ’44 e i Grundrisse. Se nei Manoscritti c’è in qualche modo la possibilità di leggere un Marx alle prese con quel terreno che poi sarà l’oggetto di critica e di autocritica nell’Ideologia tedesca, se siamo cioè ancora alle prese con l’uomo e con il tema feurbachiano relativo alla costruzione di un’antropologia fondante, nei Grundrisse le annotazioni antropologiche si danno in conseguenza di una riflessione primariamente impegnata su di un processo storico concreto. Com’è noto, la nozione metodologicamente specifica e peculiare di modo di produzione capitalistico ha già fatto il suo ingresso, e ha ormai lasciato alle spalle molte delle preoccupazioni dei Manoscritti. Ha costretto, rispetto ad esse, ad un cambiamento di prospettiva. L’antropologia diviene un terreno «derivato». Essa infatti compare — se così si può dire — a bocconi, frammentaria, emerge come insieme di congetture sparse, tutta fuori da un progetto sistematico ed autonomo che ne faccia l’oggetto primario della ricerca. Il lavoro d’analisi imboccato si propone anche, evidentemente, come un laboratorio aperto in più direzioni; aperto anche ad esplorare ciò che l’uomo pare essere o non essere, ciò che pare dirci di una sua possibile lontana «sostanza» una volta che si indagano le vicende della sua storia concreta. Qui, semmai, ritorna a proporsi come legittimo, da un punto di vista metodologico — al di là dei contenuti e dei valori delle rispettive emergenti antropologiche [sic!] — un confronto con Freud.

Per tornare allo scritto di Armando, Marx non dice mai se faccia parte o no della natura umana il ladrocinio. Piuttosto ci dice come si ruba, quali sono i soggetti — attivo e passivo — del furto in un determinato contesto storico, davanti a chi asseriva che non c’era furto, o che da sempre si rubava e che sempre si ruberà.

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Al di là del fatto se gli uomini siano o non siano portati a rubare costitutivamente (peraltro non credo che a cuor leggero si possa pensare di dimostrare, testi alla mano, che escluda che lo siano), ci mostra come viene usata, a cosa serve in condizioni storiche determinate l’affermazione che vuole gli uomini ladri. Marx non dice che la natura umana, come tale, è modificabile. Tenta invece di dirci quali siano le funzioni reali e gli esiti concreti del pensare in termini di «natura umana». Marx prima e più che «trarre fuori dalla tana della naturalezza il furto» inscrive nella materialità del processo storico il postulato della naturalità del furto. Colloca in una processualità concreta ‹una› affermazione sulla natura umana, che per ciò stesso, mostra il processo della sua genesi e le sue funzioni. Non si deve dimenticare che un lavoro analogo a quello che lo vede impegnato di fronte all’economia politica classica Marx lo dedica all’utopismo socialista, anche e soprattutto al più «avanzato». Se il problema fosse stato quello di voler dimostrare che il desiderio degli uomini è costitutivamente — ontologicamente — capace di pretendere legittimità, che gli uomini ‹possono› desiderare, perché spendere per esempio tanta fatica — pur con tutta la stima che gli tributò — per un Fourier. La differenza è la stessa che passa fra la costruzione di un’antropologia costitutiva che abbia l’ente generico uomo come punto di riferimento e oggetto primario della teoria ad [sic!] una riflessione che tenti di individuare la determinatezza della produzione e riproduzione del tessuto simbolico e materiale in cui si danno i rapporti fra gli uomini e fra loro e la natura. Su questo terreno gli uomini si rivelano ladri non più di quanto siano onesti, buoni non più che cattivi. Il loro desiderio si propone come reale e possibile e al tempo stesso corre il continuo rischio dell’illusione e dello scacco. La sua realtà e la sua possibilità non esistono in un in sé, in un qualche luogo privilegiato che «viene prima» — nello spazio della teoria — ma sono tutte inscritte, come il loro opposto, nella materialità di un processo che di volta in volta propone i termini di questa realtà e di questa possibilità.

Ora è chiaro che questo spazio di riflessione — lo spazio teorico marxiano — ha a che fare ‹anche› con l’antropologia, — come dire — se la trascina dietro. La frequenta per fare domande più che per dare risposte. Comunque per dare risposte all’interno di un «contraddittorio», tendenzialmente aperte, circostanziate; a volte reattive e umorali, come spesso dà Marx, ma mai definitive. In altri termini il compito di questa riflessione è critico. Ed essa è, su questo piano, incompatibile con le sollecitazioni a distendersi in una qualche immagine totalizzante. Qui il problema del pessimismo e dell’ottimismo si pone sullo sfondo, come si pone sullo sfondo l’antica domanda sostanzialistica sulla natura umana. Non perché si ‹decide› che sia irrilevante, non perché linguisticamente irrilevante e impraticabile, secondo le procedure di ogni positivismo, ma perché propone implicitamente i termini della propria imprendibilità. Si sposta più in là, acquistando la configurazione delle possibilità progettate a partire dal processo storico, si preserva e si restringe nello spazio dell’utopia, ma non è mai possibile darle una risposta. Costringe lo spazio stesso della utopia a ridefinirsi, come è appunto accaduto con Marx.

Credo che qui si sia lontani da Fagioli, nonostante ci parli di nascita, ci parli di una storia possibile, non avvolta dalle spire della ripetizione.

Peraltro, questa nascita, questa possibilità di nascere di cui Fagioli ci parla, se non si vuole che si tolga nell’istante stesso in cui ci viene data, deve essere in qualche modo dimenticata, deve farsi di una povertà assoluta. Anch’essa in fondo non può pretendere altre garanzie che il suo stesso desiderio, che ogni volta è costretto a subire la paura di perdersi. Chiunque si dia da fare per assicurarne la salvezza, finisce solo per mostrarne la fragilità.

In tal senso il richiamo ai termini del processo analitico come ‹esperienza›, è contraddetto dallo sforzo di legittimarla con ciò stesso che la nega. Proclamare a gran voce e ai quattro venti che è stato scoperto il meccanismo per il quale gli uomini possono fare esperienza non equivale a privarli nello stesso istante della medesima? Non vuol dire negarla, questa esperienza, nel momento in cui ci viene detto che la si fa perché qualcuno ha ‹scoperto› che la si può fare e ci dice anche in cosa consiste? Perché questo forsennato rispondere e prender parola? E questo è un vecchio vizio psicoanalitico. Riempire i vuoti. Riempire la morte con il già dato. Con la morte.

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Ma c’è anche da dire che, sicuramente, se l’esperienza non fosse così precaria, o meglio, da tempo pressocchè [sic!] impossibile, non potrebbe accadere che qualcuno la reclamizzasse come una gran scoperta; come La Scoperta. E ancor meno potrebbe accadere che qualcuno avesse sentito il compito «creativo» di impegnarsi per dimostrarla, di arrabbattarsi [sic!] per ottenere il viatico che la possa consentire, le ragioni che la legittimerebbero. Cosa visibilmente assurda per qualsiasi «buon senso» che non si fosse irrimediabilmente capovolto nella caricatura di se stesso. Essa starebbe o non starebbe davanti a ciascuno, e basta; se non fosse che l’autoritarismo delle cose impone alla conoscenza di contrarsi nel superfluo. Ogni cosa, in effetti, deve essere dimostrata. Anche la vita, anche la nascita. Ma se per ogni bambino che viene al mondo non si prefigurasse la minaccia più che concreta di un destino interamente già scritto e leggibile ovunque — rispetto a cui la favola freudiana di Edipo è una metafora innocua, pur sempre carica di sogni di rivolta — nessun Fagioli si sarebbe mai preso la briga di parlarci del liquido amniotico per parlarci della nostra libertà.

Che questa libertà, per ritrovarsi, debba regredire fin nel liquido amniotico è solo il segno della sua assoluta difficoltà, della sua espulsione dalla vita, della impotenza insuperabile di ogni soggettività particolare; e più in là rimanda l’immagine di un sogno «garantista» che ci domina tutti.


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NOTE
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[1]. M. Fagioli, Istinto di morte e conoscenza, Roma 1978,
— La marionetta e il burattino, Roma 1978,
— Psicoanalisi della nascita e castrazione umana, Roma 1978;
A. Armando, Mito e realtà del ritorno a Freud, Roma 1973,
— Per una psicoanalisi politica, Roma 1975,
— Il pappagallo dei pirati, Roma 1976;
R. Sciommeri, Seminari, Roma 1976.

[2]. A. Rosselli, Libri oggi, n. 2, 1978.

[3]. Cfr. soprattutto: «Istruzione sessuale dei bambini», 1907, «La morale sessuale civile e il nervosismo moderno», 1908, «Le prospettive future della terapia psicoanalitica», 1910.

[4]. Del resto l’approdo al pessimismo è già tutto contenuto nel progressismo illuministico delle origini e nel positivismo della sua formazione scientifica. In relazione a queste coordinate la rilevazione a cui è costretto Freud della ineliminabilità del conflitto non ha — per lui — altra possibilità di definirsi che come segno di una condizione umana ineluttabile, secondo suggestioni interamente caratterizzanti la cultura europea di quel periodo, in lui appena dissimulate dalla sua netta sobrietà. La non eliminabilità del conflitto diventa l’impossibilità della guarigione, laddove la guarigione era stata pensata come superamento definitivo del conflitto. E ancora, la non eliminabilità del conflitto comporta che si stigmatizzi come illusione qualsiasi immagine di ordine sociale giusto, laddove invece si pensava che la società avrebbe potuto costruire e raggiungere la propria giusta organizzazione a partire anche da una sorta di psicoterapia sociale spontanea e generalizzata, germinante dalla mera socializzazione «naturale» delle conoscenze psicoanalitiche, in grado come tali, per il loro operare spontaneo, di tamponare i sintomi nevrotici e smascherare il «tornaconto della malattia». (S. Freud. Le prospettive future della terapia psicoanalitica, Opere vol. VI, pagg. 204-205 Torino 1974).

[5]. La frase è tratta dal peraltro assai importante lavoro di E. Codignola, «Il vero e il falso», Torino, 1977.

[6]. A. Armando, «Il pappagallo dei pirati» pag. 159, si vedano anche le impassibili considerazioni reclamistiche sui risvolti di copertina della seconda e terza edizione di «Istinto di morte e conoscenza».

[7]. Cfr. Su questo tema S. Montefoschi, «L’uno e l’altro», Milano 1977, pagg. 181-197.

[8]. A. Armando, «Il pappagallo dei pirati», pagg. 128-140.

[9]. Cfr. S. Montefoschi, op. cit., soprattutto il cap. VI.

[10]. Cfr. S. Freud, «Analisi terminabile e interminabile», Torino 1977, pag. 72.

[11]. Cfr. Nouvelle revue de psychanalyse n. 17, 1978 pag. 10.

[12]. A. Lorenzer, Psicoanalisi e analisi del linguaggio in F. Rella (a cura di) La critica freudiana, Milano, 1977, pag. 62.

[13]. J. B. Pontalis, op. cit. pag. 11.

[14]. Così sempre Pontalis a proposito degli ascetismi psicoanalitici: «non avere desideri cos’è se non desiderare il Niente? Ed è questo il più irresistibile, incoercibile e letteralmente il più travolgente dei desideri», op. cit. pag. 11.

[15]. Cfr. P. Roazen, Freud società e politica, Torino 1973.

[16]. Mi riferisco ad esempio all’importante lavoro di Rella sui testi freudiani contro le riduzioni ortodosse e trasgressive di Freud compiute in nome di Freud e in opposizione a Freud. Tuttavia il suo accostamento, peraltro assai prudente, fra dinamica dei processi rappresentativi e la nozione marxiana di ideologia mi pare vada incontro a insormontabili difficoltà. Si rischia che accada qualcosa di simile alla confusione attivata a suo tempo dal Lukacs di Storia e coscienza di classe, fra alienazione (entausserung-entfremdung) e reificazione (versachlichung-verdinglichung). Nel discorso di Rella l’ideologia pare diventare una modalità costitutiva del pensiero, un modo di funzionare della psiche: «la rappresentazione è sempre spostata e distorta, essa sarà sempre propriamente una rappresentazione ideologica». (Nuova corrente n. 61, 62 1973 pag. 235). Se così stanno le cose quel che si perde è proprio lo spessore teorico che il concetto ha in Marx, il suo legame con il processo di autonomizzazione del mondo delle merci, con il rapporto fra capitale e lavoro, e (ahimè!) con la teoria del valore lavoro. Che sono poi gli elementi che ne fanno una categoria storico-specifica non fungibile e sempre da ricostruire. Essa è comunque lontana dalla ipostatizzazione che la imprigiona quanto [sic!] si tenta di declinarla dall’apparato teorico freudiano.

[17]. Cfr. A. Armando, Per una psicoanalisi politica, Roma 1975 pag. 117-149.

[18]. Cfr. L’introduzione alla seconda ed. di Istinto di Morte e conoscenza, Roma 1977.

[19]. A. Armando, op. cit. pag. 145.

[20]. Op. cit. pag. 145.

[21]. Fagioli è assai avaro nel dirci che il terreno critico che lui rivendica nei confronti di Freud lo condivide con non pochi altri. E questo ce lo potrebbe dire senza che in nessun modo venisse lesa l’autonomia del suo contributo. Per esempio è facile notare che negli aforismi psicoanalitici dei «Minima moralia» ci sono quasi tutti gli accenti critici verso la psicoanalisi che animano il suo discorso. Certo che manca qualcosa, cioè Fagioli, ma questo non lo esimerebbe da nominare Adorno. Così come nel proverbio popolare tedesco che Adorno ripropone sempre nei Minima moralia (Il pensiero che uccide suo padre il desiderio è colpito dalla nemesi della stupidità) e intorno a cui ruota gran parte dello scritto adorniano, c’è ancora qualcosa di capitale per Fagioli — il tema della scissione dell’intelletto astratto — e anche qui silenzio. E si potrebbe continuare. In linea di massima si può dire che è assai poco ammissibile questo impassibile confondere ciò che è nuovo per lui — ciò che per lui è una scoperta — da ciò che è nuovo in assoluto (abitudine che condivide con Armando). Ma in questo far terra bruciata intorno si può leggere a mio avviso, ben più significativamente, il risultato di una implicazione teorica fondamentale. Una ulteriore prova del privilegiamento assoluto di ciò che agli altri manca. Il contenuto del II capitolo di Istinto di morte e conoscenza: appunto, il primato dell’ontologia si ripropone implicitamente. In questo senso Fagioli fa assai bene a non nominare mai Adorno.

[22]. A. Armando, op. cit. pag. 166.

[23]. Tengo a precisare, a scanso di equivoci, che questo schematico discorso su Marx non si appoggia su interpretazioni che affermano l’esistenza di «rotture» fra parti della sua opera. Se devo trovare dei referenti interpretativi per i problemi della continuità o discontinuità fra il primo Marx e quello del Capitale, rimando, per tutti, alla introduzione di C. Luporini, alla II ed. italiana (Roma 1967) dell’Ideologia tedesca. Qui mi preme esclusivamente porre l’accento su queste differenze all’interno di Marx per i loro riflessi sui livelli di «lettura collettiva» che di lui si danno. Si potrebbe dire che c’è una differenza fra Marx e il Marx di tutti (anche in questo caso) che viene assai prima di proporsi sotto forma di una rottura epistemologica all’interno di Marx. Una concrezione di senso comune, costruita intorno ad un nome: significante di ogni rivoluzione, di ogni comunismo. Di esso è satura l’atmosfera intorno a Fagioli.


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ANNOTAZIONI E SPUNTI
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ACCENTI, CITAZIONI E CORSIVI — Nell’originale le ‘e’ finali accentate sono praticamente sempre errate (ad esempio: perchè, cosicchè ecc.), per cui le correggiamo senza darne ogni volta notizia (poiché la stessa tendenza si manifesta anche nella risposta di Fagioli, sospettiamo che si tratti della “firma” di qualche redattore/revisore/tipografo). Raramente i titoli delle opere sono evidenziati in corsivo, più spesso sono posti tra doppie virgolette angolari, ma il più delle volte non sono evidenziati affatto (come ad esempio nelle note); le doppie virgolette angolari sono utilizzate anche per le espressioni citate letteralmente oppure per evidenziare singoli termini (come «pessimismo»); può così capitare che si trovino “annidate”; le virgolette “inglesi” invece non vengono mai utilizzate.


[A·8]• Nel testo originario, «[…] una visione del mondo omogenea e culturalmente specfica [sic!] […]» è un palese refuso editoriale, dev’essere “specifica”; corretto.

[A·20]• Nel testo originario, «Fagioli «nomina» l’origine e, ‹di conseguenza›, da [sic!] senso al mondo» è un palese refuso, dev’essere “dà”; corretto.

[A·23]• Nel testo originario, «Il no a Freud è tutto nei confronti dell’antropologia freudiana; [sic!] La risposta è altrettanto totalizzante e pervasiva», ci dev’essere un refuso, ma doveva esserci un punto al posto del punto-e-virgola, oppure è sbagliata l’iniziale maiuscola successiva? Non ci pare di poter ravvisare in “La risposta” una valenza simile a quella del precedente “La Scoperta”, per cui lasciamo marcato con [sic!].

[A·30]• Nel testo originario, «[…] qui si compie la pardita [sic!] di ogni possibilità […]» anche questo si direbbe un palese refuso editoriale, dev’essere “perdita”; corretto.

[A·41]• Nel testo originario, «Ora è proprio rispetto a questo [sic!] tradizione […]» la mancata concordanza è il risultato di un evidente refuso editoriale, dev’essere “questa”; corretto.

[A·42]• Nel testo originario della nota 16, «Essa [il soggetto dovrebbe essere l’ideologia] è comunque lontana dalla ipostatizzazione che la imprigiona quanto [sic!] si tenta di declinarla dall’apparato teorico freudiano», forse, invece di “quanto”, dovrebbe essere “quando”; che si tratti dell’ennesimo refuso editoriale? – marcato con [sic!].
IBID.• Nel testo originario della stessa nota 16, ma un po’ sopra, a proposito di Lukacs (György Lukács), i termini tedeschi riportati tra parentesi: ‹Entausserung› (=‹Entäußerung›!), ‹Entfremdung›, ‹Versachlichung› e ‹Verdinglichung›, essendo sostantivi, dovrebbero esser scritti tutti con l’iniziale maiuscola; testo non modificato.

[A·46]• Nel testo originario, «[…] — al di là dei contenuti e dei valori delle rispettive emergenti antropologiche [sic!] — […]», nell’espressione “delle rispettive emergenti antropologiche” manca un sostantivo; forse dovrebbe essere “antropologie” anziché “antropologiche”, oppure manca un sostantivo come, ad esempio, “concezioni”; marcato con [sic!].

[A·48]• Nel testo originario, «La differenza è la stessa che passa fra la costruzione di un’antropologia costitutiva che abbia […] ad [sic!] una riflessione che tenti […]», già il periodo è complesso per via delle proposizioni subordinate, ma se poi si scrive – o si stampa – anche “ad” al posto di “ed”, allora il pensiero diviene praticamente inintellegibile; marcato con [sic!].

[A·53]• Nel testo originario, «[…] se l’esperienza non fosse così precaria […] pressocchè [sic!] impossibile […]», l’ortografia vorrebbe “pressoché” (o – al limite – “pressocché”), ma anche in questo caso, dato che non si tratta di un semplice cambio d’accento, lasciamo marcato con [sic!].
IBID.• Nel testo originario, «[…] il compito “creativo” di impegnarsi per dimostrarla, di arrabbattarsi [sic!] per ottenere […]», l’ortografia vorrebbe “arrabattarsi” (con una sola ‘b’); anche in questo caso lasciamo marcato con [sic!].

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