Biancaneve e sette anni
✩ (Arkbase)
di Massimo Fagioli
Psicoterapia e scienze umane n. 4 — 1979 (ottobre-dicembre), pp. 27-39.
Graziosamente, innanzitutto bisogna essere gentili, la priorità di un discorso serio è di Alessandro Poggiali. (v. Psicot. e S.U., 2, 79) Dopo sette anni. Interpreto, lui me lo permetterà, il coraggio di fermarsi di fronte al fuggi fuggi generale. Il mostro da esorcizzare con il silenzio, può essere, in fondo, guardato. Guardato da lontano, certo, toccato anche, ma con un lungo bastone perché la propria carne non si porti dietro, per sempre, i segni di un morso. Divora costui, infatti.
Ma, forse, possiamo anche sederci e riflettere; lui sta buono, aspetta, da anni. È gentile, accetta anche il punto di partenza per capire. La tradizione da cui proviene è «falsa non perché e nella misura in cui ripercorre le strade ineffabili dell’ontologia, non perché abbia l’ambizione di dirci la Verità sull’uomo, ma perché non dice la Verità vera».
Timidamente, ero bambino e come tutti i bambini cercavo la Verità vera in quello che dicevano gli adulti. L’amore che fosse amore, la rabbia che contenesse la giustizia. Ma, negli anni poi, scoprii che era prioritario cogliere e battere alcuni termini dei pensatori e degli scienziati usati e gettati addosso agli uomini. L’anatema, la scomunica che nel medio evo e più, fino pressappoco alla rivoluzione francese, determinava il fuggi fuggi generale e l’isolamento del condannato, dell’escluso dalla comunità dei credenti. Ideologia è la parola-bolla che esclude, all’inizio di pagina, il reo dalla comunità dei ricercatori. Reo di aver voluto cercare la Verità vera.
Avvocato di me stesso, l’arringa di difesa è breve. Non cerco e non ho mai cercato la Verità vera di tutto. Il demonio non mi ha preso con la sua onnipotenza, ho rubato un po’ di Streben a Faust. Nulla di più. Ho chiesto la Verità sui giocattoli che gli adulti dicevano essere portati dalla Befana; quanto dicevano non era vero. C’è una verità vera: sono miscredente. Non credo nella impossibilità della ricerca e di scoperte scientifiche sulla realtà umana psichica e, bestemmiatore, per ora dico, poi mi rinnegherò, simili a quelle fatte sulla realtà materiale. Non sono mai riuscito ad obbedire alle proibizioni nel sapere… il cartello, il cartello, il cartello: torna sempre, «Si prega di chiudere gli occhi». Ho la monomania di sfasciare cartelli ogni volta che mi vengono posti davanti.
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Non iniziava, il discorso sull’inconscio, con la «totalità della sua fenomenologia esistenziale»; era semplicemente la domanda e la proposizione di una ricerca su che cosa possa accadere ad un figlio alla morte del padre. Viene preso da rabbia e odio per la delusione, l’abbandono, il distacco? Oppure se ne frega? E se se ne frega, perché se ne frega? Qual è la dimensione affettiva, pulsionale, del fregarsene? Domande legittime in un ricercatore della realtà psichica umana. Così inizia la storia. Quella storia che innamora tutti. La proposizione, il comando che viene dall’inconscio di non guardare, di non vedere, di non conoscere. Non cercare la verità vera. È un comando che viene da noi stessi, dal nostro più intimo e profondo inconscio: la dimensione pulsionale. Il termine desiderio (i sogni sono desideri) rende intoccabile il sogno, sacro luogo dell’affetto più caro all’uomo: il desiderio. L’«antropologia» era fatta. Il mondo inconscio dell’uomo è un mondo di desideri non appagati. Il sogno li appaga. Non c’è più bisogno di ricerca, di confronto, di dialettica, di cura. È sufficiente un controllo cosciente e razionale sulla smodatezza di alcuni «desideri» in contrasto con la società e la civiltà.
E Freud non si è chiesto niente. Tutti paghi dell’«interpretazione»: invito alla pietà filiale di chiudere gli occhi al morto, o invito ad essere indulgenti, l’obbedienza di lui è poi l’obbedienza di tutti. Al più un occhio, guardare quello ‹che è› ed essere indulgenti; guardare quello che viene detto, quello che viene ‹confessato›. E la dizione letterale dei fatti conferma quanto generalmente si sa sugli esseri umani. Il «nudo linguaggio dei fatti» è lo stesso nella visione comune del mondo degli uomini e nell’ascolto delle comunicazioni del contesto analitico. L’obbedienza a chiudere gli occhi sulla realtà psichica, sulle ‹dinamiche› e le possibilità che, in una dialettica, ha la realtà psichica e guardare con un solo occhio, è la fonte di una antropologia filosofica costruita fuori dal contesto analitico e di una scienza del contesto analitico che non dà altro che la descrizione dei fatti.
È questo, più esattamente il discorso, che non quello di aver costruito prima, da filosofo, una antropologia che poi, abilmente, surrettiziamente, dichiarandola accessoria, viene a dettare lo statuto dell’analisi. Cosa che non risulta dalla storia (non si possono alterare i fatti per una tesi precostituita), cosa che viene ammessa nel ricordo del primo facile entusiasmo freudiano. È che, appunto, l’omino aveva scoperto il desiderio e quindi la strada della felicità umana era aperta. Si trattava soltanto di liberalizzare un po’ il mondo degli uomini. Una provinciale, tardiva rivoluzioncella liberale in Austria, quando già, da tempo, essa era compiuta altrove. Noi vorremmo andare oltre.
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Una prima disamina del rapporto di un ricercatore con la realtà umana: se sia lecito, nella considerazione del gesto e della parola degli uomini, andare oltre la presa di coscienza dei fatti evidenti. Se sia lecito non subire le parole comuni come verità vere; il desiderio, l’ideologia, l’antropologia. Ora ti dò un pane, viene detto, e si porge un ciottolo. Tanto gli altri sono ciechi.
E qui c’è il primo discorso sull’articolo in cui viene data una interpretazione di Freud ad hoc, per seguire poi quanto è necessario (prestabilito) dire. Perché non è più evidentemente sufficiente etichettare come ideologia e buttare, bisogna che essa sia collocata nello stesso spazio freudiano, nella stessa impostazione, nello stesso «metodo». Come è chiaramente detto. Ovvero ora, nel 1979, è necessario costruire le pareti della scatola in cui rinchiudere. Una volta fatto questo, la veloce condanna. Fagioli fa lo stesso. L’esistenza, per un attimo accettata nel fermarsi a guardare «Sono convinto che Fagioli sia qualcosa da prendere sul serio…» viene guardata per essere ricacciata nello spazio angusto del passato. Ricacciata in un fallimento, in una cecità. Il difensore di una tradizione intoccabile ripropone il «non c’è mai nulla di nuovo sotto il sole». Nessuno deve uscire dalla impossibilità della ricerca psichica. La rozzezza di un silenzio fuori dalla storia viene, con indignazione, rifiutata. Occorre altra abilità per reimmettere nel niente quanto sta emergendo.
Corrispondentemente, in assenza di brutalità manifesta, occorre gentilezza. Antropologia. Accettiamo anche questa parola. Veronica, Giovanna, Carla. Nulla in contrario. Possiamo chiamarla come vogliamo. Un saio non ha mai fatto un frate. È quanto c’è dentro che interessa: la pretesa di sapere «cosa sia o non sia l’uomo, la sua vita emotiva e istintiva, le attività cognitive, amore e morte, formazione e riproduzione della cultura e della società». È quindi una ideologia, colta in un momento di illuminazione personale, intima, onnipotente, ed essa impone il cammino alla ricerca che, quindi, non è più tale. In primis, ci sarebbe il Discorso sull’uomo. La prassi analitica non c’è, non sa niente. «… la prassi analitica, in quanto totalmente ‹dedotta› dal quadro ontogenetico proposto, perde ogni autonomia cognitiva, logica e metodologica, e la possibilità di fondare su se stessa questa autonomia».
Come in Freud, la costruzione antropologica viene prima, costruita altrove dal luogo legittimo, in assenza e per assenza di prassi analitica. Questa viene dopo. L’autore ritiene importante evidenziare che il metodo è lo stesso di Freud. Quanto poi può essere detto di diverso e di nuovo non conta più molto, una volta che sia stata eliminata la novità del metodo. Entrambi partono da una assenza, l’assenza di prassi analitica. L’assenza del rapporto, l’assenza della dialettica.
Poi, mi spiegherà l’autore, come a partire dalla stessa assenza possa venir fuori una metapsicologia diversa totalmente, una prassi altrettanto diversa, un metodo altrettanto diverso, una cura, una guarigione. Mi spiegherà come possa accadere che, in fondo, anche in questo articolo, non può essere totalmente ignorata una esistenza. Dopo 7 anni la cosa doveva essere seppellita e scomparsa per sempre. Invece accade il contrario. Immediatamente sparita, al suo nascere, ricompare con fatica dopo anni; e un articolo si decide di occuparsi di essa, e nel quale, in ogni modo, un passo di poche parole nomina un primo capitolo. Esso c’è. Sette anni di prassi analitica sono serviti per una prima esistenza. Non posso proporre altro che la negata prassi. Non credo ai miracoli. E le poche parole dicono di «… una tendenza a far sparire, ad annullare…».
Pertanto, precisando, la «scoperta» di Freud sarebbe il desiderio, la scoperta di Fagioli è la pulsione di annullamento. Ed un primo rilievo è che ad una scoperta, da sempre, sulla bocca e nella mente di tutti, che nella mente di tutti riassume in una parola, il desiderio, un mondo di rabbia, di odio, di ipocrisia nell’abbraccio che l’uomo fa all’uomo, si contrappone la verbalizzazione di quanto, mai, è stato pronunciato dalle labbra umane, fantasia di sparizione. Ad esso non può non far seguito il nesso con il metodo. Il metodo di prima, quello che ha condotto a tale verbalizzazione, il metodo di poi, dopo la verbalizzazione.
Ma l’autore dice che sarebbe tutto uguale anche qui: stesso «metodo» freudiano. La scoperta viene dal basso: clinica, prassi analitica. E la cosa viene subito liquidata. Il primo capitolo non merita nessuna considerazione, nessun lavoro di comprensione, nessuno studio. Neppure domande. È come se desse fastidio, ragazzino impertinente, va allontanato in tutta fretta per poter fare disquisizioni, per annodare continuamente i fili che altrimenti cadrebbero spezzettati. Se cade il «come Freud» c’è rischio che cada tutto. Le pareti della scatola devono esserci tutte.
Allora, sempre con molta gentilezza, chiedo che venga accolta la mia richiesta di vedere gli atti. Nel primo capitolo ci sono quattro paragrafi e una breve premessa. Inoltre ci sono due introduzioni: 1970, 1976. Nessuna «strategia»… freudiana, chi nega non ha capito, chi non ha capito «resiste», chi «resiste»… è come un paziente nevrotico. Ci tengo che la resistenza sia mia, la pazienza, la costanza nel proporre realtà materiali evidenti, la calma. Leggiamo insieme con calma.
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Pag. 16 «… non potendo più, con ciò, lo psicoanalista limitarsi a considerare principale il problema della rimozione…». Quanto viene onestamente denunciato, il silenzio, ritorna e ricade sulle prime 50 pagine del volume. 50 pagine diventano una riga «Si tratta di una tendenza a far sparire, annullare…». E ci si precipita nel capitolo successivo. Non è rimozione e non interpreto. Il falso di citare, surrettiziamente, 100 pagine per poi cancellarne 50 è manifesto, non è rimosso. È un mio «peccato» aver scritto soltanto 50 pagine, quando, normalmente, per quanto vi viene detto, ne andrebbero scritte 500. Ma è un mio metodo. Il piccolo fatto, la muffa di Fleming, la bacinella di Semmelweis, va proposto, difeso e sostenuto anche se gli altri, gli scienziati, i colti non lo prendono in considerazione o ridacchiano, in quanto amano il roboante, il fastoso, il non essenziale e sobrio; pensano, evidentemente, che la scienza, senza paludamenti accademici, non abbia modo di esistere, verrebbe divorata dalla plebe affamata… ‹Improvvisamente, l’estate scorsa›?
Il linguaggio dei fatti e i fatti del linguaggio, il ‹ciò che è›, puro e semplice senza interpretazioni: leggiamo. Nella premessa del 1970, nelle prime righe, appena accennata la fantasia di sparizione, si dice di una piattaforma di base, di una ricerca e di una indispensabilità di un discorso organico di fronte all’estensione del sapere e dei concetti… di fronte cioè alla dissociazione e all’astrattezza cui era giunto il freudismo o i vari aspetti e tendenze della psicoanalisi in genere. È la stessa dizione che emerge nell’analisi con il paziente confermato nella sua schizofrenia dal freudismo-kleinismo in cui un oggetto parziale, brutalmente materiale, riusciva a spezzettare qualsiasi possibilità di pensiero e di ricerca. Ma nonostante ciò ero gentile anche allora, nella premessa, quando dicevo che rivendicare il diritto di essere ascoltati è accettabile soltanto quando si ha qualcosa di realmente valido da dire. Non mi concedevo neppure la giusta rabbia, ed è noto che tacqui per anni la scoperta.
E la lettura dice della assoluta necessità che gli ambienti psicoanalitici si tolgano da un rapporto schizofrenico con la realtà. Che si torni, in primis, ad un rapporto normale anche se semplice e poco scientifico, in cui però una poltrona torni ad essere una poltrona e una matita una matita. Un rapporto, in primo luogo, con la realtà evidente, con la realtà materiale. L’andare oltre, al latente, verrà dopo, e può venire soltanto se non si annulla la realtà evidente. Se si dialettizza e si rifiuta una realtà storica chiara senza negarla nell’idealizzazione.
Una lettura appena un po’ accurata, chiarisce subito, quindi, che il metodo non è la dichiarazione della scoperta. Esso è un rifiuto, una dialettica, uno scontro, una prassi. Una rivolta. L’analista in funzione attiva, integrativa e strutturante è subito nella seconda pagina. E l’acuto studioso, che sa sintetizzare Freud, che dà, al criticato, la gioia di vedere capito l’istinto di morte «… l’elemento fondamentale di una processualità in cui la soggettività si forma nel ritrovarsi (inconscio mare calmo) e si ritrova a partire dalla lotta vincente di una memoria del rapporto — sempre attivata dalla realtà presente del rapporto — sulla negazione del rapporto» dovrebbe, veramente, poter capire anche il nesso tra rimozione e atteggiamento aspettante e silenzioso.
Dovrebbe capire che non c’è «già dato». Dovrebbe capire la rivolta ad una mentalità più che positivistica per cui l’inconscio emergerebbe solo ad aspettare, come con la mamma si attendeva che galleggiassero gli gnocchi. La magia del lettino e del relax porterebbe alla conoscenza del latente, farebbe varcare le colonne d’Ercole. Lo sbracarsi del paziente, come spesso accade, nelle sue libere associazioni, esalta l’inganno dell’analista che non c’è, nel suo essere il liberatore degli amori scomposti dei ragazzi di fronte al cantante irraggiungibile. Di fronte al ‹già dato›.
«La qualità dell’avvenimento relazionale all’interno del contesto analitico» si configura tale nel momento in cui si «tagli» il legame con l’esterno. Il setting analitico posto cioè sotto l’apriori dominante di un annullamento dell’esterno. Ed è così che l’istinto di morte, fantasma invisibile dell’opera, domina la scena coinvolgendo i partners. Nevrosi di transfert e nevrosi di controtransfert si mescolano insieme senza che sia possibile distinguere l’una dall’altra. La prassi analitica è condannata, non ad essere povera, ma miserabile in una imposizione istituzionale di un setting ipnotico in cui l’unico progresso fatto è aver tolto la mano dalla fronte del paziente perché il contatto materiale poteva corrompere l’onnipotenza del nulla. Per il resto le «libere associazioni» coinvolgono e trascinano l’analista in una fantasmagoria di oggetti in cui l’analista carponi può, al massimo, cercare i pezzi, sempre abbindolato da quelli mancanti: dai non, dalle pulsioni di annullamento. E siamo soltanto all’inizio della terza pagina.
C’era una volta un Re. Io ho pensato, per un attimo, che certe cose fossero ovvie per tutti, ho pensato che esistessero più bambini di quanti, in effetti, ne esistano. Ho pensato che, come i bambini, alla favola che un Freud avesse fatto la psicoanalisi, i colleghi facessero finta di crederci conservando un fondamentale rapporto con la realtà… con la verità vera. E mi è uscita quella frase «ma penso inteso dai colleghi…». Questa è ideologia, dare per dato ciò che non è, o fare di una realtà parziale una verità.
Mi accade sempre, e ci tengo che mi accada per un «ottimismo idealistico» di una fondamentale, anche se non ingenua, fiducia nelle possibilità umane, di aspettarmi un movimento negli altri. Anche ora. «Oh, finalmente, un articolo scientifico, su una rivista scientifica: oh, finalmente, una ricerca, un dibattito, un desiderio di sviluppo». Ma poi non è (salviamo l’ultima pagina?). Così accadde in passato. Non fu inteso, non vollero intendere.
È che, maledettamente, viene sempre da regalare il desiderio: quello di cercare e sapere in chi parla e scrive quello di avere possibilità reali di curare (è in corsivo) in chi «cura». Viene sempre di fare un pensiero che le vittime, gli analisti, siano più vittime che complici. Invece essi credono, incredibile!, al Re per grazia divina come all’imperatore asburgico. La nevrosi di controtransfert si è costituita in una gravità maggiore della nevrosi di transfert e resta ignorata nel silenzio, nella non interpretazione, nell’assenza degli analisti. Inseriti totalmente nella «tradizione psicoanalitica» sono chiusi in quello spazio, nell’annullamento totale di qualsiasi ipotesi di uscirne fuori. ‹Inibizione, sintomo e angoscia› è l’ultima legge, la nascita non esiste, e non avrai altro Dio fuori che me.
Responsabilizzazione, potere terapeutico, conoscenza, sono parole che scottano, bruciano. Pensiero personale frutto di elaborazione delle percezioni. La sfida fu grande. Freud, il catechismo, il marionettismo. La dialettica verrà dopo, è anche la frase che può essere letta. Il metodo di cominciare con una piccola cosa: intanto laviamoci le mani. In verità avevo messo troppo cloruro di calce. Ma non potevo fare altrimenti. La trappola infernale del «masochismo originario» del rapporto con Freud e l’istituzione, non può sfociare e corrispondere ad altro che al silenzio, alla non interpretazione.
Ma una realtà si mosse: alcuni cominciarono a chiedere, ed io risposi. Non esiste nessuno schema. Non c’è la proposizione di una onto-antropologia ottenuta in un giorno di illuminazione, non c’è nessuna verità rivelata. «Nel momento in cui, nel corso della elaborazione teorica, mi tornava in mente l’evento analitico dal quale la concettualizzazione aveva preso a formarsi, mi veniva spontaneo riferire l’evento analitico stesso» «… come e quanto la conoscenza teorica derivi dalla dinamica vissuta del rapporto interumano». Una replica precedente alla critica. La prassi analitica è la base della elaborazione teorica, che avviene per fantasia-ricordo, e non può essere altrimenti. È memoria del rapporto. La possibilità di andare dal concreto particolare al teorico è il diritto dell’uomo di avere e sviluppare quanto la natura gli ha dato: il linguaggio. Giustamente, non è accettabile la perversione di esso che conduce al linguaggio astratto, «alla terra da sempre matrignamente promessa del sapere tradizionale». Questo accade quando si annulli la prassi analitica, quando il discorso diventa discorso sull’uomo per avere, più che tagliato, cancellato il legame con l’esperienza vissuta, per non pensare di potere ricrearla nella memoria-fantasia. Per essere convinti, ideologicamente, di una «impotenza insuperabile di ogni soggettività umana particolare».
E così abbiamo scorso la premessa, la presentazione, il saluto iniziale. Ci sono ancora 44 pagine.
— § —
Il sapere povero si toglie dalla sua miserabilità nel momento in cui l’elaborazione teorica fa di esso… il Discorso sull’uomo? Il manto regale sovrapposto al pensiero sugli uomini, al pensare agli uomini, alle dinamiche della coazione a ripetere degli individui concreti nei loro rapporti sadomasochistici, a che serve? Qualcuno si era addormentato e fecero finta che fosse Re per prenderlo in giro. Io ho imparato a stare attento alle distrazioni; ho bisogno soltanto delle vesti essenziali dell’artigiano che deve essere libero nei movimenti. E qui, costretto a bestemmiare di nuovo per spiegarmi semplicizzando, rapporto erroneamente il rapporto uomo-natura al rapporto uomo-uomo. Artigiano non dissociato che sa che nel momento in cui si tagli l’albero in un certo modo, si congiungano le tavole in un altro certo modo, vengono fuori le porte di una casa. Per esperienza, anche se, ogni volta, l’albero è diverso e va studiato da capo. Esperienza che diventa elaborazione teorica in quanto l’artigiano è capace anche di spiegare perché lavora in quel modo.
La seduta analitica dura 50 minuti, diceva l’antenato. I 10 minuti di intervallo servono: 5 per pensare al paziente che se ne è andato, e 5 a quello che deve venire. Occorre un rifiuto importante. Tutti i minuti servono per il paziente che se ne è andato e per il rapporto con l’esterno dell’analista. Quello che deve venire può anche darsi che non venga. Non si sa. Non si sa prima. E nel momento in cui dovesse venire può essere diverso dall’altra volta che venne. L’imposizione della ripetitività sta in quei 5 minuti. Si vede l’uomo per quello ‹che è›, e sempre così sarà nel momento in cui si impone a lui il destino tragico della coazione a ripetere. L’uso di una realtà esistente per la verità di tutti è il gioco freudiano, acutamente rilevato come furbo, apparentemente modesto, schivo, dato come necessario ma accessorio. Le caratteristiche della calunnia maligna.
Invece può darsi che il paziente non venga. Questo Freud non lo considera mai. Ci rimase male, nel caso Dora, e farfugliò un tentativo di discorso sul controtransfert. I testi «di cui si fa un gran parlare» ma troppo scarsamente letti, iniziano con esso ed esso è sempre presente ed, in essi, dialettico. Il vedere ‹ciò che è› fa sfuggire a Freud ciò che non c’è: il paziente. L’onto-antropologia non ammette che si evidenzi questa realtà: l’assenza del paziente. Essa si basa sull’assenza stessa per poter fare il Discorso sull’uomo… e l’uomo non c’è.
Il paziente si costituisce nel momento in cui c’è l’analista. «Nel setting analitico va considerata una situazione interpersonale specifica che, di norma, non viene invece valutata in altre situazioni di rapporto interumano. La relazione di transfert e controtransfert…». (Sono riferimenti alle prime pagine del primo capitolo). Se non c’è l’analista, non c’è neppure il paziente. C’è Discorso sull’uomo in una conversazione, soltanto apparentemente dialettica, in cui il parlare astratto dell’uno si vanifica nel parlare astratto dell’altro. (cfr. p. 245). È nel ‹contro›transfert, nell’opposizione che il concreto dell’analista fa nel confronto con una realtà umana che non è la verità vera dell’uomo, che si perde qualsiasi possibilità di accusare di ideologia, di onto-antropologia, di «deduzione».
Il ritorno dal teorico verbalizzato al concreto-particolare è l’altra separazione che cimenta l’analista a togliere da sé qualsiasi astrazione, qualsiasi «già dato», qualsiasi dominio sull’altro. La continua assenza del paziente cimenta l’artigiano a ricominciare sempre da capo a lavorare con gli elementi più rozzi e banali. Il paziente che ritarda, il paziente che dice di essersi dimenticato della seduta. E non si parla, banalità evidente, di inconscio mare calmo al paziente che dimentica la seduta. Si resiste e si rifiuta l’assenza. Ma per frustrare l’assenza l’analista deve esserci. Deve, in primo luogo, fare un discorso con se stesso: di esserci ‹nonostante› l’assenza del paziente. Fondamentale cioè, è che non sia l’analista ad essere assente, che non sia sempre silenzioso. Si comincia così dall’analista, si frustra la sua assenza, si fa in modo che ci sia, che compaia.
Ecco il secondo capitolo, ‹dopo› il primo. Necessario per non lasciare latente la presenza dell’analista del primo capitolo. Necessario ma non sufficiente. Ne occorrono ancora un terzo, un quarto, un quinto… e ancora altri. Il primo de ‹La marionetta e il burattino›, è ancora la resistenza. La prassi analitica si svolge prima del secondo capitolo e poi. Prima e poi negli anni, prima e poi nella scrittura.
Piccolo «sapere povero, “inquietante dell’inquietante”…» «il fragile e precario nuovo che viene proposto — il ‹di meno› rispetto al ‹di più› di un sapere millenario…» è questo: la presenza dell’analista. Esso chiede a gran voce «il compito “creativo” di impegnarsi a dimostrarlo, di arrabattarsi per ottenere il viatico che lo possa consentire, le ragioni che lo legittimerebbero». Soltanto così, se il paziente viene, nel rapporto si può ricostruire anche quanto è accaduto nella seduta precedente. Si può ricostruire la storia di 70 anni di assenza di psicoanalisi… Di assenza di 100 (non di 50) di 700, di 800 e più pagine. «Poi da qui viene il resto». È cambiato tutto. La miserabilità del non sapere, del non poter fare ricerca, l’ideologia della non esistenza della ricerca sulla realtà psichica, si è trasformata in una povertà di lavoro umano quotidiano. Si è rotto il destino che faceva degli uomini brutte copie di animali, passivi di fronte alla realtà del mondo umano. Ora c’è una risposta, la possibilità di risposte alle negazioni. L’analista, ora presente, le dà in quanto ha ragione di credere, ha la ragione per pensare che al di là di esse negazioni, per l’opposizione che si fa ad esse, nella prassi e per la prassi, possa emergere una realtà umana finora ritenuta impossibile.
«Lei nei primi 10 minuti è stato zitto, ‹perché›…» e qui il critico non vorrebbe questa parola. Il tutto, miserabilmente, dovrebbe fermarsi alla verbalizzazione del fatto materiale accaduto. «Lei, nei primi 10 minuti è stato zitto». «Lo so» risponde il paziente. E la parità nel sapere è ristabilita, la dialettica tra uguali cultori della conoscenza può svolgersi all’infinito. Ogni cosa deve emergere in virtù del suo stesso desiderio. La penetrazione nell’al di là dei fatti da parte dell’analista, è interdetta, pena il rischio di essere accusati di fare un Discorso sull’uomo. Antropologico, onto-antropologico, ideologico. Quello che sempre si fa quando non c’è presenza dell’analista. Tu non devi fare un discorso su di me. Non sai tu che io vengo da te per non farti vedere? Non sai, esaltato sacerdote, cieco sulla realtà umana, tutto preso dalla passione del discorso, che non è stato mai permesso vedere la vita emotiva e istintiva, le attività cognitive l’amore e la morte degli uomini?
E se si desse il caso che un analista comprenda quello che il paziente non ha ancora compreso? È giusto che taccia. Che reinfeti nel ventre quanto è venuto fuori, che scazzotti quel pene che è andato in erezione. L’analista non ci deve essere. Ognuno resti nel «desiderio» del nulla. La presenza dell’analista, della prassi analitica che è data dalla presenza e che dà all’analista una presenza, sconvolge troppo la tradizione psicoanalitica e lo spazio in cui ogni ricerca sulla realtà psichica è stata rinchiusa. Le prime 50 pagine, forse era difficile leggerle, sono la presenza anteriore alla denuncia. Sono la prassi analitica senza assenza, senza rassegnazione, senza la viltà di rinchiudersi nello spazio pur non avendo dichiarato pubblicamente il proprio nome. Forse, ancora più difficile del poi, perché lasciava la possibilità di rinnegarsi.
Quindi è la frustrazione che disturba, il rifiuto. Questo è un analista frustrante: egli dice ‹perché›. Non si limita alla descrizione dei fatti che anche io so. Quindi ne sa più di me. E il paziente può darsi che non venga a fare analisi. Il silenzio, onestamente denunciato, dura da più di sette anni. Ora giunge il primo pettine da mettere nei capelli. L’articolo è simpatico, colto, ben scritto con un uso seducente delle parole. Sarebbe da accettare e motivo di dibattito piacevole.
Mi viene detto che ho fatto un sogno, i sogni sono desideri e non realtà. Non sono uscito dal castello dove la più bella del reame cerca di confermare sempre la sua identità allo specchio, non sono uscito dal dominio della tradizione matrigna. (Materialmente, per lo meno, sono riuscito a farmi espellere!). Oppure, novella Cornelia, sono modesto e scompaio di fronte alle categorie partorite. Elle, personificandole nel pronome, procederanno da sole alla guarigione degli uomini. Maggiordomo del Re, mamma che si sacrifica al Bambino, Maria Vergine che si annulla di fronte al Cristo eterno, il concetto non propriamente nascosto sarebbe che sono dentro l’istinto di morte-tradizione dalla testa ai piedi. Ecco che si spiega l’indispensabilità del «come Freud».
«Il tessuto delle ipotesi antropologiche definisce la psicoanalisi a maggior titolo di altri aspetti (il metodo interpretativo e la sua logica). …ritengo che anche Fagioli vada collocato in questo spazio…». L’assenza non letta nelle prime pagine della premessa, l’assenza delle scoperte sull’inconscio, l’assenza di una cultura psicoanalitica, l’assenza dell’analista in quanto silenzioso, l’assenza di una conoscenza dell’inconscio umano, l’assenza di una speranza e di una cura, l’assenza di responsabilità, l’assenza di nessi e della possibilità di fare nessi, l’assenza di una ricerca, l’assenza di domanda, viene ancor più esplicitata nella prima pagina del primo capitolo. E non abbiamo visto che sia stato minimamente riorganizzato e riformulato nessun quadro onto-antropologico.
Ma Fagioli andrebbe collocato nello stesso spazio. La prassi analitica è subalterna e come tale non c’è, non sa niente. La prassi analitica di lotta continua contro l’assenza, il non, l’istinto di morte, la rassegnata e voluta cecità umana, sarebbe subalterna. Quattro paragrafi ignorati: assenza, frustrazione, reazione dell’analizzando, la storia di un caso. E ci sarebbe anche la lotta all’istituzione, ci sarebbero anche i seminari. Non comprendo.
Forse Fagioli doveva fare, e anche dire. Ma non doveva dire della legittimità della prassi analitica. Ma allora non doveva scrivere neppure il primo capitolo, non doveva parlare di assenza, di frustrazione, di reazione dell’analizzando all’assenza. Non doveva scrivere niente e… non doveva e non deve fare niente… aspettando, perché «questa possibilità di nascere… non può pretendere altre garanzie che il suo stesso desiderio», come gli gnocchi al bollore dell’acqua.
Egli non deve decostruire-disvelare-costruire. Non devo certo nel senso dell’«operari» freudiano che tende a ricostruire l’infanzia per una rimemorazione-informazione in modo che il paziente ‹sappia› il perché, ora, odia. Perché sappia le ragioni storiche del suo ineluttabile destino. Questo potrebbe anche farlo nel momento in cui si riesca a cacciarlo dentro lo spazio freudiano, dove a conti fatti, e per confessare qualcosa di personale, non è mai stato. Ciò che non deve fare e proporre è la ‹sparizione di proprie situazioni interiori di rapporto›. Le proprie situazioni interiori di rapporto sono della propria storia e tali devono rimanere. C’è un «masochismo originario», trappola abilissima per la quale nessuno sfugge ad una coerenza apparente. ‹Un bambino è stato picchiato›, 1919; ‹Al di là del principio del piacere›, 1920; ‹Il problema economico del masochismo›, 1924. Il gioco è fatto. Chiamato «istinto di morte» il sadismo e la castrazione, essi sono originari, istintivi, immodificabili. La decostruzione-costruzione rimane alla narrazione dei fatti evidenti.
Fagioli, invece, dimostrata la legittimità della prassi analitica in quanto ha scoperto che l’istinto di morte è pulsione di annullamento, interpreta le dinamiche pulsionali del transfert per modificarle. Non si limita alla ricostruzione dei fatti evidenti. Non sta zitto. E, appunto, coerentemente, scandalo degli scandali, parla di guarigione. Parla di guarigione perché può interpretare, perché non conosce soltanto la rimozione, perché ‹sa› che l’istinto di morte non è sadismo. Invece mi si dice che non devo interpretare. Quanto viene detto essere il mio momento «chiaramente» secondario rispetto ad una priorità freudiana, mi viene rimproverato e proibito. Se fosse secondario e irrilevante non ci sarebbe bisogno di aggredirlo. Presenza e interpretazione, il biglietto di presentazione del volume, vengono ad essere eliminati da questa cosiddetta critica che altera testi e fatti a proprio uso e consumo.
Il difetto di pensiero che non coglie la consequenzialità della non interpretazione dall’unico concetto esistente, la rimozione, rimozione e non interpretazione che si accoppiano a partorire il mostro della incurabilità umana, guasta la gentilezza iniziale di proporsi di essere seri. Il narrare ad un uomo, il paziente, della sua pazzia è impossibile a meno di considerare un sadismo assurdo nell’accusare l’altro di invidia e di bramosia e rassegnarlo al suo destino di reietto. Ma tant’è! Questa impossibilità di interpretazione nel cosiddetto metodo freudiano, non viene colta. L’interpretazione, che non può essere altri che frustrazione, mi viene astratta in una formulazione di sapere tradizionale in cui il verbo, senza contenuto di rapporto, senza fantasia-ricordo, elaborato in e per assenza dell’altro conduce a quella descrizione di fatti che pareggia il sapere di tutti. Il confronto con l’assenza, quindi, è il luogo ignorato nel quale invece si inizia e si fa psicoanalisi. Il massimamente trasgressivo è questo scontro, tuttora presente.
•[A·b18]• ~?
Nella mancanza umana è stata colta la pulsione attiva di annullamento. È esso il già dato? La morte? Non capisco. Qualcuno un giorno, nella storia, doveva pur dirlo. Qualcuno doveva pur rispondere all’accusa di fare del male ai pazienti. L’analista assente, l’analista che non interpreta la fantasia di sparizione è assente, e fa del male. Fa del male l’assenza di una psicoanalisi che si dichiara presente nella storia, e non c’è. Ora ti dò un pane, viene detto, e si porge un ciottolo. Tanto gli altri sono ciechi. La psicoanalisi che non interpreta perché non può interpretare. Perché l’analista non vede al di là del suo naso e, allorché qualcuno gli indichi quanto c’è da vedere e dire continua a non voler vedere perché vedere interpretare, significa prassi analitica. Significa realizzare il rapporto interumano come dinamico, rifiutarsi di, anche soltanto, pensare che gli esseri umani e i rapporti interumani siano, ‹veramente›, fatti di statue «che fanno corona al Re in un anfiteatro di marmi».
Il famigerato secondo capitolo non è altri che questo: aver visto, al di là di ciò che, troppo spesso, è, a che cosa porta l’interpretazione, la dialettica, la frustrazione, una volta che ci si sia battuti contro l’assenza che rende ogni ricerca ripetitiva, inutile e suicida. Aver visto, al di là di ciò che è, quanto può essere, nel ritrovare la nascita. Che mi avreste detto se avessi scritto soltanto il primo capitolo? «Benissimo, la fantasia di sparizione, ma perché dovremmo frustrarla ed eliminare l’indifferenza, per trovarci in un marasma di rapporti sadomasochistici?» È la dimostrazione, di fronte alla impossibilità, della possibilità. «… ogni cosa, in effetti deve essere dimostrata. Anche la vita anche la nascita». Per una difficoltà che diventa assoluta di fronte alle continue proposizioni della espulsione della vita dalla realtà, di fronte alla ripetizione di una impotenza insuperabile di ogni soggettività umana. Ma queste non sono la verità vera. Sono realtà di alcuni, assenti dalla vita e dalla storia. Che sia permesso a me ed altri gridare ai quattro venti che la mancanza insuperabile non è natura umana.
Non è il caso, per questo, di sentirsi defraudati della propria esperienza. Ogni volta, ognuno, dovrà ricominciare da capo a lavorare contro la ‹propria› pulsione di annullamento. La costrizione degli altri che non la vogliono più riguarda soltanto i Re che non riescono a staccarsi dal trono.
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ANNOTAZIONI E SPUNTI
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NOTA: questa risposta di Fagioli all’articolo di A. Poggiali è stata ripubblicata su “Il sogno della farfalla” nel n. 3 del 2000 (NER).
•[A·a5]• Nel testo originario, «Qual’è [sic!] la dimensione affettiva, pulsionale […]», l’apostrofo è di troppo; eliminato.
•[A·a8]• Nel testo originario, «Ora ti dò [sic!] un pane […]», l’uso dell’accento su “dò” è controverso, e il più delle volte si preferisce ometterlo; ci chiediamo se la scelta dell’autore oppure del redattore/tipografo, ma in ogni caso la frase è ripetuta tale e quale al cpv. b18; testo non modificato.
•[A·a16]• Nel testo originario, «[…] ‹Improvvisamente,› l’‹estate scorsa?› [sic!]», l’articolo e il suo apostrofo sono esclusi dall’evidenziazione in corsivo, mentre il punto interrogativo finale, che non fa parte del titolo, è (erroneamente) incluso; assumiamo si tratti di refusi; corretti.
NOTA: per la trama e altri particolari sul film ‹Improvvisamente, l’estate scorsa› (‹Suddenly, Last Summer›, del 1959), tratto dall’omonima pièce teatrale di Tennessee Williams, si veda, ad esempio, wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Improvvisamente_l’estate_scorsa_(film); il riferimento è al racconto dell’episodio di cannibalismo che, nel film, si scopre essere all’origine della vicenda drammatica e dei problematici rapporti tra i personaggi, con pesanti risvolti psichitrici.
•[A·b18]• Nel testo originario, «Ora ti dò [sic!] un pane […]», l’uso dell’accento su “dò” è controverso, e il più delle volte si preferisce ometterlo (vedi analoga annotazione al cpv. a8); testo non modificato.
•IBID.• Nel testo originario, «Perché [sic!] […] allorché [sic!] […] perché [sic!] […]», tutti accenti acuti nell’originale; giunto quasi alla fine dell’articolo il redattore/revisore (che in genere ha messo tutti accenti gravi) dev’essersi distratto; testo non modificato.
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