2006·02·24 - Left n. 7 • DiBranco·M (immagine islam)

L’immagine dell’islam


✩ (Left Story)

Cultura & Scienza — Storia

Usurpatori della funzione creativa del creatore. E dal IX secolo i ritratti vennero condannati. Ma nel mondo musulmano non è andata sempre così

Fonti antiche parlano di un mercante contemporaneo del profeta che in un monastero di Bosra avrebbe visto il volto dipinto di Muhammad

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• Pittura tratta da un libro turco: Maometto cerca di convincere i musulmani ad attendere per l’attacco agli abitanti della Mecca

• Maometto appena nato tra le braccia della madre

• Maometto alla Kaba è attaccato dal pagano Quorashi abu Jahl

di Marco Di Branco
Left n. 7 — 24/2/2006 (venerdì 24 febbraio 2006), pp. 76-78.


Le vignette satiriche sul profeta dell’islam comparse su alcuni quotidiani europei, oltre a suscitare in tutto il mondo il disgusto, la protesta e la rivolta di un gran numero di musulmani, hanno provocato in Occidente, come “effetto collaterale”, il riaccendersi della curiosità sul tema affascinante del ruolo e della liceità delle immagini nel mondo islamico. Ogni turista che abbia visitato delle moschee sa bene come esse siano assolutamente prive di immagini sacre, e come, in generale, non vi si trovino rappresentazioni di esseri viventi, e tuttavia, la consapevolezza di questa diffidenza per le immagini — che l’islam ha peraltro in comune con l’ebraismo — è spesso fonte di equivoci. Ad esempio, si ritiene comunemente che il divieto delle immagini sia connesso con lo “spirito semitico”, senza considerare che questo stesso “spirito” si è espresso nella creazione di grandi correnti artistiche ricche di rappresentazioni di esseri animati: si pensi all’arte assiro-babilonese, all’arte di Palmira e a quella dei Nabatei di Petra. L’avversione per le icone non è dunque una caratteristica dei popoli semitici: lo fu, tutt’al più, di una piccola parte, gli israeliti e, anche in questo caso, per un periodo limitato della loro storia. Un punto fondamentale è invece quale sia stata l’attitudine dell’islam primitivo, e soprattutto quella del profeta, rispetto ai monumenti figurati. In effetti, Muhammad non fu quel feroce iconoclasta dipinto dalla tradizione, e nel Corano non troviamo una chiara condanna delle immagini. Solo un passo del libro sacro dell’islam lascia dei dubbi: «Astenetevi dalla contaminazione degli ‹awṯân› [orig.], astenetevi dal discorso mendace!» (XXII 30). Qui infatti non sappiamo con certezza se intendere il termine ‹awtân› come «immagini» o «idoli». In ogni caso, sarebbe inutile cercare nel Corano la interdizione delle immagini che troviamo invece nell’Antico Testamento (Deuteronomio V 8): «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a quelle cose e non le servirai». Nel Corano, inoltre, non v’è traccia di divieti nei riguardi delle rappresentazioni profane, e infatti nell’islam primitivo abbondano oggetti e ornamentazioni figurate: la tradizione ci parla di pittori che decoravano le case di Medina — la città in cui Muhammad si era rifugiato al momento dell’ègira (622 d.C.), facendone la sua capitale — e nell’epoca del califfato omayyade (661-750 d.C.) grandi cicli pittorici ornavano le sontuose residenze dei sovrani, quei “castelli del deserto” resi celebri dalle descrizioni di Lawrence d’Arabia nei ‹Sette pilastri della saggezza›; negli stessi palazzi gli archeologi hanno anche rinvenuto delle statue, ritraenti i califfi o forse i grandi personaggi della storia islamica. Fra i musulmani era diffusa anche l’arte del ritratto: le prime monete da loro coniate — che imitano i tipi persiani e bizantini — recavano infatti la figura del sovrano armato di spada.

Nei primi secoli dell’islam esistevano infine numerosi racconti relativi alla diffusione delle immagini del profeta; in uno scritto sui «segni della profezia» dell’erudito musulmano Abû Bakr Ah’mad b. al-H’usayn al-Bayhaqî — attivo nella prima metà dell’XI secolo d.C. — al capitolo intitolato “Ciò che è noto riguardo all’immagine (‹s’ûrah›) del profeta Muhammad e a proposito delle immagini dei profeti che lo hanno preceduto in Siria” l’autore narra ad esempio di un mercante meccano contemporaneo del profeta che in un monastero di Bosra avrebbe avuto modo di vedere le immagini dipinte di Muhammad e di Abû Bakr, il primo califfo; e di un altro commerciante di Mecca, il quale, durante un viaggio in Siria, sarebbe stato condotto in una casa decorata da pitture, e avrebbe identificato fra esse l’immagine del profeta. Narrazioni come queste, se pure appartengono a quel particolare tipo di letteratura il cui scopo principale era di fornire ogni sorta di prove della missione profetica di Muhammad, sono comunque di notevole antichità e rivelano un mondo saturo di immagini a carattere religioso, facendo balenare la possibilità che raffigurazioni del profeta — ben attestate, in epoche più recenti, in molte regioni del mondo islamico — fossero presenti, in contesti di tipo privato, anche nel periodo iniziale dell’islam.

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Tuttavia, già nei primi decenni dell’VIII secolo si era verificato un importante episodio di iconoclastia islamica, provocato da un decreto del califfo omayyade Yazîd ibn ‘Abd al-Malik: dovette trattarsi di un provvedimento territorialmente limitato ed esplicitamente anti-cristiano, inquadrabile nel più vasto contesto delle teorie iconoclastiche elaborate in àmbito ebraico e bizantino. La vera svolta nell’atteggiamento islamico nei confronti dell’immagine si ha però con l’avvento della nuova dinastia che alla metà dell’VIII secolo sostituisce gli omayyadi alla guida dei musulmani: gli abbasidi. Costoro spostano la capitale dell’impero da Damasco alla Mesopotamia, dove fondano Bagdad, e rompono, sia dal punto di vista politico-amministrativo sia dal punto di vista artistico, con la tradizione ellenistico-romana, guardando piuttosto all’eredità persiana. In questo periodo prende forma quella grande opera di raccolta di tradizioni riguardanti Muhammad che costituiscono, insieme allo stesso Corano e al consenso della comunità, le fonti della teologia e della legge islamica. In tali tradizioni l’atteggiamento nei confronti delle immagini è fortemente negativo: secondo al-Bukârî, curatore, attorno al IX secolo, di una monumentale silloge di “detti e fatti del profeta dell’islam”, Muhammad avrebbe espresso una ferma condanna della pittura, affermando che nel Giorno del giudizio gli artisti sarebbero stati puniti da Dio nel modo più severo, in quanto usurpatori della funzione creativa spettante appunto solo ed esclusivamente al Creatore. Il passo successivo è la formalizzazione del divieto assoluto di produrre o utilizzare immagini, perché «gli angeli non entreranno in una casa dove c’è un dipinto», e perché coloro che le creano «mentono contro Dio e sono suoi nemici». Questo divieto tradizionale non fu comunque sempre rispettato e i giuristi stessi escogitarono degli accomodamenti: in molte regioni del mondo musulmano sovrani e ministri amanti delle arti promossero la creazione di opere pittoriche di notevolissimo livello, un’eco delle quali si ritrova nelle splendide miniature che, soprattutto a partire dal X secolo, illustrano i manoscritti islamici in lingua araba, turca e persiana.

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Come è evidente anche da questa breve sintesi, le vicende relative al rapporto dell’islam con la sfera delle immagini sono dunque assai complesse e in larga misura non riconducibili alle categorie del pensiero artistico occidentale. Nei nostri mezzi di comunicazione di massa, che si sono ampiamente occupati del problema in occasione dell’‹affaire› delle vignette, si è invece imposta una lettura semplicistica e fuorviante, tutta imperniata su un’astratta — e del tutto incongrua — polarizzazione tra islam «massimalista» e «progressista». Tale visione è perfettamente compendiata nell’articolo pubblicato su ‹la Repubblica› del 3 febbraio 2006 da Khaled Fouad Allam, il sociologo algerino che insieme all’altro Allam, Magdi, vicedirettore ‹ad personam› del ‹Corriere della Sera›, costituisce la principale “autorità” a cui è demandata la divulgazione di temi connessi al mondo islamico da parte dei maggiori organi di informazione italiani. Secondo l’autore, nella controversia sulle immagini una parte del mondo islamico avrebbe fatto prevalere «un’interpretazione massimalista, vietando anche la raffigurazione iconica del profeta, e indirettamente ponendo un blocco su tutta la creazione artistica nell’islam». E ancora: «Nei periodi di ripiegamento dell’islam o di irrigidimento delle società musulmane, tali questioni divengono facilmente anche questioni politiche». Questa ricostruzione, oltre a essere palesemente errata dal punto di vista storico (basti ricordare che l’ostilità nei confronti delle immagini si afferma in uno dei periodi di maggior fioritura culturale dell’islam, e che se a tale ostilità si è talvolta derogato nella pratica, nessun musulmano, per quanto “progressista” ha mai esplicitamente teorizzato la liceità delle immagini in campo religioso), è del tutto priva di fondamento anche per ciò che concerne la storia dell’arte: lungi dal costituire «un blocco su tutta la creazione artistica», il particolare rapporto dell’islam con l’iconografia ha invece rappresentato uno stimolo straordinario alla nascita di forme artistiche originali quali la calligrafia o l’arabesco, nel quadro di una contrapposizione fra spazio pubblico, rigorosamente non figurativo, e spazio privato, dove le immagini possono invece dispiegarsi liberamente. Nel tentativo di autoaccreditarsi come autorevole esponente dell’islam “moderato”, in strenua lotta contro ogni fondamentalismo, Allam tende purtroppo a ingabbiare la millenaria vicenda islamica in schemi rozzi e prevedibili che poco hanno a che fare con l’autentica ricerca storica, e si avvicinano pericolosamente alla propaganda. Se si vuole lavorare per la pace e la comprensione reciproca è invece necessario andare oltre le facili banalizzazioni e riscoprire le sfumature e le complessità: si tratta di un compito arduo, ma, come soleva dire il profeta Muhammad, è nostro dovere seguire la via della scienza, dovessimo per questo andare fino in Cina.






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ANNOTAZIONI E SPUNTI
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COMMENTO — Qualche breve cenno di storia del rapporto dell’islam con le immagini, in riferimento alla polemica dell’epoca sulle “vignette” aventi per oggetto il Profeta, e un affondo polemico contro i 2 Allam, presunti “esperti” di cultura islamica, Khaled Fouad (su “Repubblica”) e Magdi (sul “Corriere”). L’autore, Marco Di Branco, se si tratta dello storico cui si riferisce la pagina di wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Marco_Di_Branco), si è laureato in Storia romana all’Università La Sapienza di Roma, ha conseguito il dottorato in Storia antica, si è poi specializzato in epigrafia tardo-antica e bizantina, e si è diplomato in Lingua e cultura araba; ha insegnato a Udine, all’Università della Basilicata a Potenza, a Matera e alla Sapienza di Roma, e ha pubblicato diversi saggi su storia e letteratura antiche; dovrebbe quindi avere le carte in regola per bacchettare sociologi e giornalisti. L’articolo di Khaled Fouad Allam cui il testo si riferisce è consultabile sia nell’archivio di repubblica, sia anche nei nostri archivi, qui.


[A·0]• Nella didascalia: «[…] Maometto cerca di convincere i musulmani […]», notare che nelle didascalie viene adottato il nome italianizzato, mentre nel testo — e in quello evidenziato che da questo è tratto — viene utilizzata la traslitterazione “Muhammad”.

[A·3]• «[…] Muhammad avrebbe espresso una ferma condanna della pittura […]»: ma perché in modo specifico della “pittura”? Dopotutto, anche gli scultori realizzano immagini, e la scultura doveva essere all’epoca ben presente. A meno che per “pittura” non s’intendano qui le arti figurative in genere.

[A·4]• Nel testo originale: «[…] le vicende relative […] sono dunque asssai [sic!] complesse […]» la tripla ‘s’ è un evidente refuso; dev’essere “assai” (corretto).

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