2013·11·16 - Repubblica • Vannini·M (Simone Weil)

Simone Weil. Mistica o eretica? L’ultimo processo


✩ (Arkbase)


di Marco Vannini
Repubblica — 16/11/2013 (sabato 16 novembre 2013)




«Io credo in Dio, nella Trinità, nell’Incarnazione, nella Redenzione, nell’Eucarestia, negli insegnamenti dell’Evangelo»: così Simone Weil iniziava la sua professione di fede nel cosiddetto ‹Dernier texte›, scritto londinese degli ultimi mesi di vita. In Inghilterra, ove si era recata per partecipare alla Resistenza antinazista di ‹France Combattante›, morì infatti, a soli trentaquattro anni, il 24 agosto 1943. Questo settantesimo anniversario viene celebrato oggi a Firenze con un convegno sul tema “Simone Weil: la fede al limite”. Nella città toscana la scrittrice francese trascorse giorni di grande letizia nel corso del suo viaggio in Italia del 1937, vi si sentì come a casa sua, tanto da scrivere, un po’ seriamente e un po’ scherzosamente, che doveva esservi già stata in una vita precedente.

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La Weil si confrontò con il cristianesimo con tutta la radicalità richiesta dalla cultura del nostro tempo, e per questo la chiesa, che pure la ha in parte utilizzata a scopo apologetico, ha finora sostanzialmente evitato di fare i conti con lei. Ciò è tanto più evidente negli ultimi decenni, quando si è cercato di recidere le radici greche del cristianesimo, intendendo riportarlo alla sua presunta origine biblica: la scrittrice francese, che pure era di famiglia ebrea, non concede infatti nessun credito a questa tesi e difende, invece, la “fonte greca”, che per lei significa l’essenza razionale, cioè universale, del cristianesimo. Giustamente perciò Levinas poteva dire che, in quanto rifiutava il mito della elezione divina di Israele, la Weil era “pagana” — ovvero, in termini più neutrali, ellenica. Questo è anche uno degli aspetti che Sabina Moser affronta nel suo recente ‹Il “credo” di Simone Weil› (Le Lettere, Firenze 2013), ove esamina in dettaglio quel ‹Dernier texte› che è il testamento spirituale della scrittrice francese.

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Il punto di partenza sta comunque nel fatto che per la Weil la fede non è quel lume (‹lumen fidei›) che illumina qualcos’altro, che sarebbe poi la verità, ma è la luce (‹lux, non lumen›) stessa, giacché, in quanto movimento di tutta l’intelligenza verso l’assoluto, essa non comunica saperi, peraltro illusori, ma è essa stessa un sapere — sapere non di altro, ma conoscenza dello spirito nello spirito.

Il contenuto della fede è il suo stesso atto, che è essenzialmente distacco, negazione: fare il vuoto di ogni preteso sapere, rifiutare il consenso a ciò che assoluto non è. La fede non è una credenza: l’atto di fede come credenza è un atto di menzogna, di invenzione, frutto di quella immaginazione che ha il fine di «colmare i vuoti, dai quali potrebbe giungere la grazia», ovvero difendere l’egoismo, l’amore di se stessi.

Simone combatte perciò questo concetto di fede come immaginazione, e ugualmente la teologia come invenzione: nel Vangelo, scrive, non c’è una teologia, ma una concezione della vita umana. Gesù chiede infatti ai suoi discepoli un radicale cambiamento, una conversione, riconoscendo la malizia essenziale della propria psiche, che tutto sottomette ai propri fini (questo il vero senso del “peccato originale”!): la rinuncia a se stesso, questo, e niente altro, è l’insegnamento evangelico.

Il cristianesimo della Weil è perciò tragico, centrato sulla croce, simbolo della morte dell’egoità, tanto che — ella scrive — si potrebbe anche fare a meno della resurrezione. È un cristianesimo ben lontano da quello, ottimistico, che parla di affettuosi “disegni di Dio” verso l’uomo — una menzogna, questa, offensiva del ‹malheur›, della infelicità, della sventura, insopprimibile dalla condizione umana.

Con il suo concetto di “decreazione”, spogliamento dell’egoità, la Weil si inserisce così a pieno titolo nella grande mistica, tanto d’occidente quanto d’oriente.

Non a caso riconobbe nella tradizione dell’India, nelle sue Scritture, dalla ‹Bhagavad Gita› ai testi buddisti, lo stesso insegnamento del vangelo: quello del distacco assoluto — distacco dall’io come da Dio. Per un verso, infatti, «è il peccato in me a dire “io”. Tutto ciò che io faccio è cattivo, senza eccezione, compreso il bene, perché io è cattivo. Io sono tutto. Ma questo io è Dio e non è un io». Per un altro verso, specularmente, «dobbiamo spogliare Dio della sua divinità per amarlo, perché se si va a Dio senza svuotarlo della sua divinità, si tratta allora di Yahweh o Allah» — cioè di due idoli.

Se questa duplice, ma in realtà semplice, operazione viene compiuta, tutto appare uno, tutto appare buono, con quel senso di realtà, presenza, gioia, che mostra l’eterno nel presente. Che il reale sia tutto quanto buono e bene, è un pensiero che accomuna la Weil alla grande tradizione mistico-filosofica, dal primo filosofo del ‹logos›, Eraclito, a Eckhart a Spinoza, che scriveva essere il pensiero del male proprio solo degli iniqui, ovvero di coloro che hanno in mente se stessi e non Dio.

[A·10]• ~
Infatti, anche per Simone, «Il reale è per il pensiero umano la stessa cosa che il bene».

Questo il senso misterioso della frase: Dio esiste». Il pensiero del male, ovvero il nonpensiero, nasce sempre dall’attaccamento, dal desiderio, che «non è altro se non l’insufficienza nel sentimento della realtà. Dal momento in cui si sa che qualcosa è reale, non ci si può più attaccare ad esso», ed è allora, con la fine dell’attaccamento, che finisce anche il pensiero del male e si ottiene davvero la libertà.

Simone contesta infatti la comune illusione della libertà, del libero arbitrio, giacché l’universo è tutto quanto sottomesso alla necessità, e l’uomo non fa eccezione, per cui «l’illusione dell’orgoglio, le sfide, le rivolte, tutto ciò non sono che fenomeni rigorosamente determinati quanto la rifrazione della luce». La ‹Bhagavad Gita› recita: «Colui che pensa: Sono io che agisco, costui ha la mente fuorviata dal senso dell’ego», e Simone conferma: «Dire “io sono libero” è una contraddizione, perché a dire “io” è proprio ciò che non è libero in me». Ciò che è libero è infatti ciò che non è più lo “io” e il “mio”, ma Dio stesso, fondo e sostanza dell’anima.

Da qui anche la critica weiliana al concetto di persona, tanto caro a certa cultura cattolica. A chi rilevava come l’antichità non avesse nozione del rispetto dovuto alla persona, Simone fa notare con sarcasmo che ciò è vero, ma non perché non avesse acquisito ancora una nozione così basilare, ma perché «pensava con troppa chiarezza per una concezione così confusa». E lo stesso vale per espressioni come “realizzazione della persona”, “diritti della persona”: la persona si “realizza” solo quando il prestigio sociale la gonfia; la sua realizzazione non ha a che fare col sacro, ma con la sua falsa imitazione prodotta dal collettivo. Quanto al diritto, poi, esso non ha alcun legame con l’amore, ma è legato, invece, allo “spirito di mercanteggiamento”, che governa il mondo del commercio: «Non è possibile immaginarsi san Francesco che parla di diritto».

Il cristianesimo weiliano è dunque per molti aspetti “inattuale”: quella di Simone fu davvero una fede “al limite”. Pensiamo comunque che verificare questo limite sia oggi un dovere cui non può sottrarsi intelligenza alcuna, religiosa o laica che sia.


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ANNOTAZIONI E SPUNTI
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COMMENTO — da completare.

NOTA: nella copia presente negli archivi di “Repubblica” non vi è nessuna parte del testo evidenziata in corsivo; tutti i corsivi qui presenti sono stati introdotti per evidenziare titoli di opere oppure per termini di origine straniera, in ciò confortati anche dalla versione pubblicata dal Vannini stesso sul suo sito (https://marcovannini.it/articoli/simone-weil-mistica-o-eretica-lultimo-processo); i 2 testi differiscono però in diversi dettagli.


[A·2]• «La Weil si confrontò con il cristianesimo con tutta la radicalità richiesta […] che per lei significa l’essenza razionale, cioè universale, del cristianesimo»: il passo è citato in nota (la nota 276, nel 4° capitolo) da F. Della Pergola in ‹Dall’impuro al peccaminoso›, Licosia Edizioni 2018.

[A·3]• Nel testo originario, «[…] ma è la luce (lux, non lumen [sic!]) stessa […]», non ci sono evidenziazioni in corsivo; pubblicando lo stesso testo nel suo sito, Vannini evidenzia “(‹lux›, non ‹lumen›)”, eppure l’intera espressione si direbbe una citazione latina: ‹lux, non lumen›; ad esempio in ‹De luminis natura et efficientia libri III…› (1640) di Fortunius Liceto si legge:
Negamus deinde luminis vocabulo significati lucem diffusam in luminoso, si le [sive?] ut ait ille in luminato corpore, cum quia luminosi corporis, luminative vocabulo si lucidum corpus appelletur, ut ignis, & altrum, in eo diffusa lux, non lumen proprie, sed lux appellatur, luminis productiva in diaphano: tum quia si luminati nomine corpus diaphanum lumine perfusum a lucido præferente significetur, […]
ma anche, di Tommaso De Vio (1556):
[…] enim lux non sensibilis sed intellegibilis: cuius ista lux sensibilis participatio quædam est. est lux, non lumen: quoniam est fons luminis, non participatio lucis. […]
tuttavia la differenza tra le 2 evidenziazioni può essere ritenuta sostanzialmente insignificante.

[A·10]• Nel testo originario, «Il reale è per il pensiero umano la stessa cosa che il bene [sic!]», mancano le virgolette angolari chiuse al termine della citazione (il cpv. successivo comincia infatti manifestamente con parole di Vannini); virgolette inserite.

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[] https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/11/16/simone-weil-mistica-eretica-lultimo-processo.html
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