2018·10·05 - RepVenerdi • Craveri·B & Clair·J • Sotto lo sguardo di Sigmund

Sotto lo sguardo di Sigmund


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Cultura - Quadri clinici
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A Parigi, una mostra ideata dal critico Jean Clair indaga sul rapporto tra il padre della psicoanalisi e le immagini. E sul perché a un certo punto si interruppe. Intervista
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«Anche se negava che la sua fosse una “scienza ebraica” era rimasto fedele al giudaismo»
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«A Parigi nel 1885 assiste alle lezioni di Charcot come a uno spettacolo»
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A destra, Sigmund Freud (1856-1939). Nella pagina a fianco, Jean Clair, curatore della mostra ‹Sigmund Freud. Dallo sguardo all’ascolto
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Il Musée d’Art e d’Histoire du Judaïsme di Parigi, dove si potrà visitare la mostra dal prossimo 10 ottobre fino al 10 febbraio 2019
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di Benedetta Craveri
il Venerdì di Repubblica — 05/10/2018 (venerdì 5 ottobre 2018)


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Parigi. Ideatore di mostre eccezionali (‹Marcel Duchamp›, 1977; ‹Vienna, l’Apocalissi gioiosa›, 1986; ‹Balthus›, 1990; ‹Identità e alterità›, 1995; ‹Melanconia›, 2005; ‹Delitto e castigo›, 2010) Jean Clair è lui stesso una figura d’eccezione. In un’epoca di specialismi, l’illustre critico — già direttore del Museo Picasso di Parigi e curatore della Biennale di Venezia del centenario — si sottrae alle definizioni e, nel segno dell’umanesimo, giudica lo studio della storia dell’arte inseparabile da quello della letteratura, della filosofia, delle scienze, della religione. Ogni mostra è dunque per lui l’occasione di ricostruire, sul filo delle immagini, lo spaccato di un modo di vivere, sentire, pensare di un’epoca. E quella che si inaugura a Parigi, al Museo d’Arte e di Storia dell’Ebraismo, il 10 ottobre, e ha come titolo ‹Sigmund Freud. Dallo sguardo all’ascolto›, costituisce una autentica sfida.

Jean Clair ritorna a mettere in scena, in quella Vienna tra Otto e Novecento che appariva già a Kraus come «un laboratorio per una fine del mondo», non già l’opera di un artista ma il pensiero ‹in progress› del padre della psicoanalisi. Siamo andati a trovarlo per chiedergli di illustrarcene l’impostazione critica.

Come ha ricordato in un bellissimo racconto autobiografico (‹La part de l’ange›) il suo primo incontro con la psicoanalisi freudiana risale agli anni difficili dell’adolescenza. Si è trattato per lei di una esperienza cruciale?

«La proposta del direttore del Museo, Paul Salmona, di curare una mostra su Freud, mi ha consentito di ritornare a riflettere su un percorso iniziato per me in anni lontani. Passo per essere un direttore di musei, uno storico dell’arte, uno scrittore, ma il fattore determinante della mia formazione è sempre stata la psicoanalisi. Freud ha avuto un ruolo centrale in diverse mie mostre come ‹Wunderblock›, che rivedeva il suo pensiero a cinquant’anni dalla morte, ‹L’âme au corps› o ‹Malinconia›. La nuova mostra mi dà modo di affrontare Freud in maniera diversa, di rivisitarlo alla luce del suo rapporto con la scienza della sua epoca, con l’immagine, con la tradizione ebraica».

Come ha impostato questa sua rivisitazione?

«Mi sono chiesto: in che misura la psicoanalisi può essere considerata una scienza ebraica? In che misura Freud è rimasto un ebreo — non praticante ma vicino al giudaismo — non avendo mai rinnegato né suo padre, né la Torah, né ancor meno il Talmud? Apparteneva a una generazione, quella della fine del XIX secolo, il cui ideale rimaneva quello dell’assimilazione e dell’illuminismo ebraico della Haskalah. E anche se aveva intrattenuto una lunga corrispondenza con Herzl, il padre del sionismo, non ne aveva mai condiviso gli ideali. La mostra consente di vedere come, nonostante l’insistenza con cui Freud si dichiarava “materialista” e sosteneva che la psicoanalisi non era “una scienza ebraica”, egli fosse rimasto fedele al giudaismo».

Eppure l’antisemitismo — pensiamo al caso Dreyfus in Francia — non sembra costituire un problema per lui.

«Freud ne parla nella sua corrispondenza ma il fenomeno non è per lui una fonte di inquietudine come lo sarà per la generazione successiva. Non immagina che si possa essere antisemiti come lo saranno i nazisti e non capisce il significato dei roghi dei libri del ’33. È Marie Bonaparte a costringerlo nel ’38 a lasciare Vienna e a rifugiarsi a Londra. Nel frattempo l’Istituto di Psicoanalisi veniva dissolto per essere sostituito da un Istituto tedesco di ricerca psicologica, con alla sua testa un certo Göring, cugino del gerarca nazista. E le sorelle di Freud sarebbero morte nei lager».

La mostra ricostruisce il percorso che portò Freud dallo studio delle immagini —scientifiche, mediche, artistiche — al loro rifiuto.

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«Ho cercato di illustrare il suo rapporto con l’immagine in quattro tappe successive. Premesso che Freud vive in un ambiente saturo di immagini — le case viennesi di fine secolo sono piccoli musei gremiti all’inverosimile di quadri, fotografie, oggetti — la prima tappa è quella consacrata a Freud neurologo, che moltiplica schemi, diagrammi, illustrazioni cifrate nel tentativo di spiegare il funzionamento del cervello. La seconda coincide con il viaggio a Parigi del 1885, quando egli entra in contatto con un pandemonio visivo: il Grand-Guignol della Salpêtrière, l’ospizio femminile della capitale, dove Charcot aveva appena creato la prima cattedra di neurologia e attirava un vasto pubblico alle sue lezioni del martedì, in cui presentava spettacolari casi di isteria. Ma quando, la sera, Freud va a teatro per vedere Sarah Bernhardt impersonare Cleopatra o Yvette Guibert cantare, non cambia molto né di ambiente né di registro».

Che importanza ha Charcot per lui?

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«Freud ammira il suo genio visivo, la sua capacità di spiegare tutto con dei disegni, ma si convincerà che non è con un vocabolario di posture che si può capire cosa passa nella testa degli ammalati, e si interesserà piuttosto all’ipnosi, alla catalessi e, infine, al silenzio di uno studio. Abbiamo avuto la fortuna di avere in prestito delle immagini e degli oggetti mai esposti finora, come il famoso quadro di Brouillet, ‹La lezione di Charcot alla Salpêtrière›, e una ricca serie di disegni e foto di donne isteriche. Persino la tinozza di cui Mesmer si serviva per i suoi esperimenti di magnetismo».

E la terza tappa dove conduce?

«Alla raccolta di immagini antiche che Freud colleziona con l’idea che tutte quelle figurine egiziane, greche e romane parlano sempre della stessa cosa. Esse svelano il substrato psichico dell’individuo, attraverso le stesse raffigurazioni dello spavento, della seduzione, dell’assassinio del padre, dell’incesto… e lo confermano nella convinzione che sono sempre gli stessi miti ad abitare la psiche umana. Mentre, nella quarta tappa le immagini non sono più né scientifiche né mitologiche, ma rispondono ormai solo a un’esigenza estetica. Freud è affascinato dall’arte, dalla pittura, dalla scultura, a prescindere da qualsiasi interpretazione scientifica e psicoanalitica, tuttavia non sempre è in grado di coglierne il significato. Malgrado ciò egli si circonda di analisti che getteranno le fondamenta di un nuovo approccio dell’arte. È il caso di Ernst Kris che studia per primo le sculture di Messerschmidt e vi scopre i sintomi della schizofrenia; o quello di Karl Abraham che si interessa alla serie delle “cattive madri” di Segantini. Sono i primi lavori di storia dell’arte che prescindono dallo studio formalista delle opere. Da questo punto di vista Freud apre la strada ad Aby Warburg».

Come ha affrontato il problema della sessualità, cosi centrale per Freud?

«C’è una stanza dedicata a questo tema dove figura anche la celebre ‹Origine del Mondo› di Courbet, prestito generoso del Museo d’Orsay, insieme al quadro, meno esplicito, che la ricopriva e che Jacques Lacan aveva commissionato a Masson. Lacan lo rimuoveva per gli invitati di vaglia. Prima di lui Khalil-Bey, il committente turco dell’‹Origine del Mondo›, aveva fatto ricorso a una tenda verde. In questa sezione c’è anche un disegno di Picasso, preparatorio delle ‹Demoiselles d’Avignon›, prima raffigurazione della sessualità che si ricollega alle osservazioni di Freud sulla bruttezza o meno degli organi genitali».

Ma per quale motivo Freud smette di interessarsi alle immagini?

[D·8r]• ~
«Freud prende progressivamente coscienza che la disposizione delle parole, l’uso della sintassi e del vocabolario ci dicono quanto e forse più delle immagini e rivelano la complessità della psiche».

[D·9d]• ~
Questa scommessa sulla forza salvifica della parola come unica fonte di verità va interpretata come un ritorno di Freud alla religiosità ebraica?

[D·9r]• ~
«La priorità data all’ascolto; il modo di conferire sempre dei significati a una parola ricordano in modo sorprendente quella saggezza talmudica a cui Freud ha fatto ritorno nei suoi ultimi anni di vita. È ciò che avvicina non poco la psicoanalisi a un tipo di spiritualità ebraica e ad un certo modo di leggere, ascoltare e interpretare le parole. La psicoanalisi comporta un passo indietro a favore del silenzio e dell’ascolto. E, fatto su cui non si insiste abbastanza, questa presa di distanza dalla dimensione visiva è sottolineata dal fatto che l’analista non deve essere visto dall’analizzato e a sua volta costui non deve vedere in faccia il suo analista [sic!]. Quante volte vediamo nei film la poltrona dello psicoanalista affiancata al divano? È un errore madornale, perché la poltrona deve essere collocata dietro la testata del divano. Ci è forse dato di vedere il volto di Dio? Mosè si vela la faccia davanti al Roveto ardente. Dio ha una voce, non un volto. In un certo qual modo la psicoanalisi ripete questo meccanismo».

Cosa sopravvive dell’insegnamento di Freud a 80 anni dalla scomparsa?

[D·10r]• ~
«Come neurologo, Freud è entrato nella storia come quelli della sua generazione; ha fatto progredire la neurologia e poi è passato ad altro. Ma il suo apporto è importante e destinato a durare. È consapevole di avere scoperto una cosa straordinaria — il metodo analitico — ma, quanto alla terapeutica è assai più prudente. A suo giudizio è una pratica troppo lunga, troppo impegnativa, troppo cara — lo dichiara già nel 1938! — e prevede che sarà la chimica a prendere il suo posto. Che confessione straordinaria da parte di un uomo giunto al termine del suo cammino! La psicoanalisi è stata lo strumento che ha consentito di penetrare nella psiche. E la pratica psicoanalitica non ci appare forse come una forma di saggezza vicina al Talmud di cui ci sarebbe più che mai bisogno in un’epoca caotica, furiosa e volgare come la nostra? Fermatevi! Ascoltate! Riflettete! Tornate ad ascoltare! È una straordinaria lezione di saggezza, se non una terapia di guarigione».

Benedetta Craveri


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ANNOTAZIONI E SPUNTI
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COMMENTO — Jean Clair è lo pseudonimo di Gérard Régnier, come risulta anche dalla pagina francese di wikipedia (https://fr.wikipedia.org/wiki/Jean_Clair); la pagina corrispondente in italiano invece non ne fa cenno, ed è anche molto più stringata sui suoi tormentati trascorsi scolastici (sembra fosse un alunno piuttosto ribelle, e anche propenso a cambiare corso di studi).

NOTA: il blog ‹segnalazioni› associa questa intervista a un’altra, storica, di Luca Villoresi a Massimo Fagioli, pubblicata il 15/03/1991 sul “Venerdì di Repubblica” (qui).


[A·0]• Nell’intestazione, accanto a “Cultura”: «Quadri clinici» vorrebbe forse essere un gioco di parole, trattandosi di una mostra sul rapporto — problematico — tra Freud e le immagini.
•[ivi]• Nel testo evidenziato: «A Parigi nel 1885 assiste alle lezioni di Charcot come a uno spettacolo», la frase è virgolettata anche se non compare nell’intervista – almeno non espressa in questo modo – in ogni caso Freud non era un medico? Avrebbe dovuto fare una differenza tra ciò cui assisteva alla Salpêtrière e ciò che accadeva invece a teatro.

[A·1]• Nel testo originario: «[…] ‹Melanconia› [sic!], 2005 […]», però la mostra è indicata come ‹Malinconia› poco oltre, nella risposta alla 1ª domanda; testo non modificato.
NOTA: in effetti, il titolo della mostra risulta ‹Malinconia› persino sul sito in francese dell’editore Gallimard (vedi http://www.gallimard.fr/Catalogue/GALLIMARD/Art-et-Artistes/Malinconia).
•[ivi]• Nel testo originario: «Ogni mostra è dunque per lui l’occasione di ricostuire [sic!], sul filo delle immagini […]», è un evidente refuso, dev’essere “ricostruire”; corretto.

[D·4r]• «[…a Parigi Freud] entra in contatto con un pandemonio visivo: il Grand-Guignol della Salpêtrière […]»: certo Parigi doveva essere una metropoli ben diversa dall’assai più sobria Vienna, comunque Freud vi permane solo per 4 mesi, precisamente dal 20 ottobre 1885 al 23 febbraio 1886; riportiamo in proposito un passo da Ellenberger, ‹La scoperta dell’inconscio› (pp. 502-3):
A Freud piaceva dire di essere stato studente di Charcot a Parigi nel 1885 e 1886: ciò induceva talvolta a credere che egli fosse rimasto a Parigi per molto tempo. In realtà, in base alle lettere di Freud alla fidanzata, Jones afferma che Freud vide Charcot la prima volta il 20 ottobre 1885, e si congedò da lui il 23 febbraio 1886, e da questi quattro mesi deve essere sottratta una settimana di vacanza natalizia, trascorsa da Freud con la fidanzata in Germania, e “un paio di settimane” di malattia di Charcot. Possiamo supporre che l’incontro di Freud con Charcot sia stato più un incontro di tipo esistenziale che un normale rapporto tra maestro e discepolo. Freud partì da Parigi il 28 febbraio 1886 con l’impressione di aver incontrato un grande uomo, un uomo con il quale si sarebbe mantenuto in contatto per la traduzione dei suoi libri, e che gli aveva fornito un mondo di idee nuove.
•[ivi]• Nel testo originario: «Ma quando, la sera, Freud va a a [sic!] teatro per vedere Sarah Bernhardt […]», la ripetizione è dovuta a un refuso o a una svista nell’editing; soppressa.

[D·5r]• «[…] il famoso quadro di Brouillet, ‹La lezione di Charcot alla Salpêtrière› […]»: il dipinto ha ispirato anche la copertina di un notissimo saggio di Ellenberger, ‹La scoperta dell’inconscio› (vedi sopra). 

Pierre Aristide André Brouillet (1887), ‹Une leçon clinique à la Salpêtrière›.

[D·8r]• «[…] l’uso della sintassi e del vocabolario ci dicono quanto e forse più delle immagini […]»: peccato che, com’è ovvio, ci possano dire ben poco sullo sviluppo psichico precedente all’acquisizione della lingua, cioè sui primi anni di vita del bambino.

[D·9d]• Nel testo originario della domanda: «Questa scommessa sulla forza salvifica della parola come unica fonte di verità va interpretato [sic!] come un ritorno […]», nessuno degli elementi che precedono il verbo è maschile, quindi dovrebbe essere “interpretata”; corretto.
NOTA: l’unico sostantivo maschile è il “ritorno”, ma può essere “interpretato” come soggetto della frase?

[D·9r]• Nel testo originario della risposta: «[…] questa presa di distanza dalla dimensione visiva è sottolineata dal fatto che l’analista non deve essere visto dall’analizzato e a sua volta costui non deve vedere in faccia il suo analista [sic!]», le due frasi dicono esattamente la stessa cosa, una in forma passiva e l’altra in forma attiva; si intendeva probabilmente che né l’analizzato deve vedere l’analista, né questi deve vedere in volto l’analizzato; marcato con [sic!].
•[ivi]• «[…] la poltrona deve essere collocata dietro la testata del divano»: questo però è valido solo per le analisi di tipo freudiano — come se le altre “scuole” di psicoterapia non esistessero… un annullamento?
•[ivi]• «In un certo qual modo la psicoanalisi ripete questo meccanismo»: è bene ricordare che l’aniconismo è una caratteristica originaria del monoteismo ebraico, attenuata nel cristianesimo (dopo i primi secoli in cui vengono distrutte sistematicamente le immagini “pagane”), ma ripresa con forza nell’islam e nella riforma protestante.

[D·10r]• Nel testo originario della risposta: «La psicoanalisi è stato [sic!] lo strumento che ha consentito di penetrare nella psiche», a questo punto è svelato l’arcano (vedi domanda 9): la Craveri ha il vezzo di concordare il verbo non col soggetto, ma con il complemento oggetto – grammaticale o logico che sia – altrimenti dovrebbe essere “stata”; corretto.
NOTA: oppure, nell’incertezza, sceglie sempre il maschile? Strana forma di “maschilismo” (verbale)!

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