Quella linea impercettibile sospesa tra il nulla e l’infinito
__________Matematica e irrazionale
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Lo sviluppo del formalismo matematico ha fornito un impulso poderoso alla conoscenza del mondo materiale. Ma lo studio di alcuni concetti limite può contribuire alla ricerca sulle origini del pensiero umano
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di Edoardo B. Drummond
All’inizio fu l’ἄπειρον di Anassimandro, che l’acribia etimologica di Semerano ricondusse all’accadico eperu (polvere, terra), finissimo impalpabile pulviscolo dunque, materia non aggregata, che poteva suggerire l’idea di una moltitudine sterminata – come nel biblico ‘afar – e tuttavia parola ancorata alla realtà materiale, concreta.
Duecento anni dopo, Aristotele pensò bene di darne una nuova etimologia, da ἀ- privativo e πέρας (limite), “illimitato”, e dunque infinito; ma subito si affrettò a sostenere che ciò che era privo di limite non era afferrabile dal λόγος ed era pertanto inconoscibile. L’infinito poteva essere oggetto di conoscenza, a patto però che fosse solo potenziale; come i numeri, cui si può sempre aggiungere uno per ottenerne di maggiori, ma ciascuno dei quali rimane tuttavia finito, pur potendo superare ogni limite. L’infinito in atto (o attuale), invece, dato nella sua interezza, non poteva, non doveva esser pensato.
Trascorse un altro secolo, e gli scienziati ellenistici, senza curarsi troppo dell’interdetto aristotelico, ricorsero diffusamente a somme di infiniti elementi infinitesimi per realizzare conoscenze importanti in matematica, in meccanica, nell’ottica, nell’idrostatica; solo nelle loro dimostrazioni evitavano di riferirsi esplicitamente all’infinito, per non incorrere nellla censura dei filosofi. L’uccisione di Archimede per mano di un soldato romano, quando Siracusa cadde, dopo un lungo assedio, nel 212 a.e.v., simboleggiò l’imminente catastrofe della prima rivoluzione scientifica della Storia.
In due secoli si completò la conquista romana del Mediterraneo. Poi, complici i vertici dell’impero, dilagò il monoteismo cristiano portando accuse di eresia, lotte fratricide, persecuzioni. L’anatema aristotelico contro l’infinito attuale venne fatto proprio da religiosi e teologi, con l’eccezione di qualcuno che, come il dotto Agostino, vescovo e Padre della Chiesa, colse un possibile nesso tra un dio unico, onnipotente e onnisciente, e l’idea, innata nell’uomo, di un infinito come di qualcosa che lo supera, che travalica i limiti della sua esperienza e della sua comprensione. L’infinito, dopotutto, poteva riuscire utile ad avvicinare i fedeli a quell’unico dio, divenuto trascendente e imperscutabile.
Molti rabbini d’Israele, dopo la distruzione del Secondo Tempio, perpetrata dai Romani nel 70 e.v., e la successiva Diaspora, si erano dedicati alle meditazioni mistiche. Scacciati di Paese in Paese, trovarono nell’infinito ‹En Sof› un sicuro rifugio. Nella Spagna dell’XI secolo si diffonde la cabala, e nel XIII il cabalista Mosheh de León scrive lo ‹Zohar›, lo “splendore”, asserendo si tratti di testi composti in aramaico più di mille anni prima. Lo “splendore” è quello dell’infinita, insostenibile luce divina, ineluttabile repentaglio per il senno e per la vita di chi incautamente troppo vi si accosti.
Parallelamente alla mistica ebraica, si sviluppano quella islamica e quella cristiana, recuperando contenuti e concetti neoplatonici da testi che cominciano a circolare sempre più numerosi. Lo zero, introdotto in Europa dall’Oriente ad opera del matematico Leonardo Pisano detto il Fibonacci, non è solo il segno di un grande progresso nelle notazioni e nelle tecniche di calcolo, ma allude a quel nulla che, insieme all’infinito, molti ritengono ormai imprescindibile attributo divino.
Per vie non sempre conosciute, antiche teorizzazioni e conoscenze filtrano sotterranee nell’Europa del Rinascimento. Alchimia, astrologia, ermetismo ne sono manifestazioni, non di rado considerate con sospetto dalle autorità religiose e politiche. Molti, attratti dalle prospettive aperte dalle nuove esplorazioni geografiche e dal recupero di saperi dimenticati, caddero allora sotto i colpi dell’Inquisizione. Ma scienziati come Keplero e Galileo risvegliarono l’interesse per concezioni e formulazioni che implicavano somme di infiniti “quanti indivisibili”, e trovarono in nuove osservazioni astronomiche innegabili conferme della teoria copernicana.
L’infinito, espulso duemila anni prima dalla Storia, preme ora per rientrarvi, e scatena una guerra senza esclusione di colpi tra le menti dei più brillanti matematici. Siamo ormai nell’Ottocento, e per comprendere i motivi di tanta disputa è necessario rendersi conto che non esiste un solo tipo di infinito. Ricapitoliamo.
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Che i numeri potessero crescere indefinitamente, sommando ogni volta un’unità all’ultimo ottenuto, era noto verosimilmente sia in Mesopotamia sia nell’antico Egitto, e non era considerazione che potesse sconvolgere la mente di alcuno. Il problema sorse quando i pitagorici si avvidero che il Teorema di Pitagora, da poco dimostrato secondo una logica rigorosa, comportava, nel caso di un triangolo rettangolo con cateti di uguale lunghezza (mezzo quadrato, tagliato in diagonale), che il rapporto tra l’ipotenusa e il cateto non si potesse esprimere in forma di frazione, cioè non era rappresentabile come rapporto tra due numeri interi [1] . Avevano scoperto che la √2 (il numero il cui quadrato è 2) era un nuovo tipo di numero, detto appunto “irrazionale” – “razionali”, dal latino ‹ratio›, “rapporto”, essendo detti i numeri rappresentabili come frazioni – e ben presto ne trovarono altri, come ad esempio π, il rapporto tra la lunghezza di una circonferenza e il suo diametro.
La scoperta era perturbante perché Pitagora aveva fondato la sua scuola su una dottrina che assegnava un significato particolare ai numeri interi – 1 era il generatore (permetteva infatti di generare per somme successive tutti gli altri numeri); 2 l’opinione, il primo numero femminile; 3 l’armonia, il primo numero maschile; 4 la giustizia, il primo numero quadrato (2×2); 5 il matrimonio (2+3) e così via – e tutte le cose del mondo dovevano essere ottenibili mediante combinazioni o rapporti tra numeri interi. I nuovi numeri mandavano all’aria il perfetto edificio teorico del maestro, tanto che i discepoli furono costretti a giurare di mantenere il segreto, e si racconta che un certo Ippaso, che trasgredì, venne espulso, ucciso o fatto morire (di questa storia esistono più versioni dall’epilogo differente, ma in ogni caso il trasgressore viene alfine eliminato, fatto sparire).
A ben guardare, il problema era sorto quando si era tentato di mettere insieme l’aritmetica (i calcoli con i numeri interi) con la geometria (i disegni eseguibili con riga e compasso). Mentre l’infinito dell’aritmetica non si raggiunge mai, e può quindi a ragione essere considerato solo “potenziale”, la linea geometrica, anche solo un suo tratto brevissimo, è costituita da infiniti punti, e deve dunque essere considerata un infinito “in atto”, “attuale”, dato una volta per tutte, e non come il risultato di una serie di punti aggiunti “uno dopo l’altro”. Mentre il primo infinito è detto “numerabile”, e va già utilizzato con notevole cautela, il secondo è detto “continuo”, come continua è la linea, e può riservare non poche sconcertanti sorprese.
Il lettore avveduto potrebbe già sospettare che il nucleo del problema stia proprio nella linea, che pur non esistendo in natura è l’elemento fondante dell’intera geometria, e forse avrà richiamato alla memoria la definizione, di Erone [2] ma inclusa negli ‹Elementi› di Euclide: “lunghezza senza larghezza”; lunghezza – si badi bene – potenzialmente infinita, perché “ogni segmento è prolungabile a piacere” (la linea contiene infatti entrambi i tipi di infinito), e larghezza pari a zero o, come anche si dice, nulla. La definizione evidenzia dunque che il nulla e l’infinito sono “contenuti” nella linea, ne sono aspetti opposti e complementari, pur non potendosi affermare che la linea ne sia la “sintesi”, poiché non viene “dopo” di quelli.
La linea non fu certo inventata dai Greci, i quali avevano tratto il loro alfabeto da quello fenicio, che a sua volta proveniva dalle scritture mediorientali. Le ben più antiche città della Mesopotamia, i loro magnifici templi e quelli egizi, non potevano essere costruiti senza un progetto; i grandi cantieri e la stessa organizzazione della produzione agricola richiedevano che fossero tracciate linee, confini; “geometria” significa infatti, in greco, misurazione della terra.
Anche l’antropologia e l’archeologia ci insegnano che la linea è idea originaria, e che come fatto simbolico è specifica dell’essere umano. I primi ritrovamenti di incisioni lineari, apparentemente privi di uno scopo pratico, risalgono a più di 70 mila anni fa, nella grotta di Blombos, in Sudafrica. La linea ha poi originato, insieme all’uso del colore, le pitture rupestri, nelle varie forme di rappresentazioni figurative, geometriche o astratte. Solo negli ultimi 5000 anni essa ha dato luogo, spezzettandosi, alla scrittura, ma fin dall’inizio, forse anche prima che si formasse il linguaggio articolato, è stata mezzo d’espressione del pensiero simbolico. Il nulla e l’infinito, impliciti nella linea, sarebbero allora connaturati, fin dalle sue origini, al pensiero umano?
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Torniamo all’Ottocento. Il conflitto si era aperto, su basi filosofiche ma, sotto sotto, anche religiose, tra quei matematici che ritenevano “realmente esistenti” solo i numeri interi e, ai limiti, quelli razionali, e coloro che invece, lavorando in campi come l’analisi, cioè con funzioni di variabili “continue”, non potevano fare a meno di tutti i numeri, sia quelli “razionali” sia quelli “irrazionali”. Era in un certo senso la riedizione del conflitto tra le diverse anime dei pitagorici, però adesso non c’era più un solo Ippaso, e dopo Newton e Leibniz, inventori del calcolo integrale e differenziale, i metodi dell’analisi matematica avevano riscosso innegabili successi. Rispetto a due millenni prima erano mutati i rapporti di forza, le tecniche di calcolo e dimostrazione, le aspettative di conoscenza e il contesto culturale.
Fu così che, nella seconda metà dell’Ottocento, un giovane dal nome tedesco, Georg Cantor, ma nato a San Pietroburgo in una famiglia di probabili origini ebraiche, mosso dalla curiosità per i numeri, si mise in testa di esplorare quell’insidioso territorio che per più di duemila anni era stato interdetto dal λόγος.
Per comprendere cosa scoprì e come riuscì a dimostrarlo è necessario introdurre qualche nozione matematica di base. Il lettore che non fosse interessato ai dettagli potrà sorvolare sulle sezioni che seguono, e riprendere la lettura dal ‹Riassunto dei risultati precedenti›, salvo poi tornare ai singoli passi quando ne avrà tempo e voglia.
Cosa significa contare?
Tutti noi abbiamo imparato a contare da bambini, e finché ci limitiamo a pochi elementi il conto è intuitivo e persino immediato. Se gli elementi sono di più, dobbiamo associare ciascun elemento a un numero, in ordine crescente: 1, 2, 3, 4, …, e quando siamo arrivati all’ultimo elemento, il conto è terminato. E nel caso in cui gli elementi da contare siano tantissimi? In teoria i numeri sono sempre sufficienti – non esiste un ultimo numero – però potremmo non avere il tempo di contarli tutti. Possiamo farne a meno se riusciamo a trovare una regola, una procedura per associare una volta per tutte ciascun elemento a un numero progressivo; in questo caso l’importante è che non rimanga nessun elemento senza numero e nessun numero senza elemento.
Ovviamente possiamo contare sia oggetti materiali, sia concetti, idee, elementi del pensiero. Nel caso di oggetti materiali possiamo star tranquilli: per quanto numerosissimi (ad esempio: chicchi di riso, granelli di sabbia, atomi, particelle elementari), saranno sempre in numero finito. Nel caso di qualcosa di non materiale, invece, possiamo trovarci – e spesso ci troviamo – di fronte a infiniti elementi. Un esempio tipico sono proprio i numeri cosiddetti “naturali”, quelli che usiamo per contare. Dato qualsiasi numero, per quanto grande, possiamo sempre aggiungere 1 e ottenere un numero più grande. Nel caso di un numero infinito di elementi, però, la regola che abbiamo fissato, di trovare una corrispondenza uno-a-uno, conduce a qualche imbarazzante paradosso.
Nel séguito chiameremo, come fanno i matematici, “insieme” una collezione di elementi – siano essi materiali o ideali – che vorremmo poter contare, “corrispondenza biunivoca” la corrispondenza uno-a-uno che abbiamo usato fin qui per contare, e “potenza” di un insieme il numero degli elementi che lo compongono. Due insiemi che hanno lo stesso numero di elementi, cioè tra i quali possiamo stabilire una corrispondenza biunivoca tale che nessun elemento del primo o del secondo rimanga scompagnato, li diremo pertanto “equipotenti”.
L’infinito numerabile è equipotente a una sua parte (Galilei)
Il primo dei paradossi che affliggono l’infinità dei numeri naturali fu messo in evidenza da Galilei nel 1638 (‹Discorsi e dimostrazioni›). Fin dai pitagorici, erano detti “numeri quadrati” quelli che si potevano ottenere moltiplicando un numero naturale per se stesso: 1 (1×1), 4 (2×2), 9 (3×3), 16 (4×4), e così via; la nostra intuizione ci dice che i “numeri quadrati” sono “meno” di tutti i numeri naturali, infatti rimangono esclusi 2, 3, 5, 6, 7, 8, 10, 11 ecc. Invece la regola della corrispondenza biunivoca ci dice che i “quadrati” sono tanti quanti i “naturali”, perché per ogni “naturale” c’è un “quadrato”, e per ogni “quadrato” c’è un “naturale”, nessuno escluso. La nostra intuizione si è formata sull’esperienza, e l’esperienza riguarda soprattutto gli insiemi finiti, per i quali la parte non è mai “equipotente” al tutto; nel caso di insiemi infiniti, però, l’intuizione ci può trarre in inganno.
Un argomento analogo vale per i numeri pari e per i numeri dispari. Se indichiamo con n un numero naturale, con p un numero pari, e con d un numero dispari, abbiamo:
p = 2 × n
d = 2 × n – 1
Le due formule stabiliscono corrispondenze biunivoche, per cui sia i numeri pari sia i numeri dispari sono altrettanto numerosi che i numeri naturali; poiché però i naturali sono i pari più i dispari, possiamo concluderne che
infinito + infinito = infinito
Anzi, poiché lo stesso argomento vale per i multipli di 3, di 4, di 5, ecc. — ‹caveat›: ad esempio 6 è multiplo sia di 2 sia di 3, ma in alternativa potremmo considerare le potenze dei primi n numeri primi —, possiamo anche scrivere più in generale che
n × infinito = infinito
Consideriamo infine le coppie ordinate di interi naturali (m, n), elementi dell’insieme “prodotto” dell’insieme dei “naturali” per se stesso, e immaginiamoli disposti come nello schema in figura:
Le frecce indicano come sia possibile ordinare gli elementi in modo che nessuno di essi rimanga escluso; ma allora possiamo associare ciascuna coppia a un numero naturale, a partire dalla coppia (1, 1) e seguendo le frecce, così da arrivare alla conclusione che le coppie di numeri naturali sono equipotenti ai numeri naturali stessi, e possiamo scrivere che
infinito × infinito = infinito
Giungiamo dunque alla conclusione che nell’ambito dell’infinità dei numeri naturali, somma e moltiplicazione non modificano la “potenza” degli insiemi infiniti.
Facciamo notare – ci servirà tra poco – che il “trucco” consiste nel cominciare a contare dal vertice per poi procedere secondo le “diagonali”, via via più lunghe e distanti, così da poter raggiungere qualsiasi elemento in un numero finito di passi; se invece procedessimo per righe o per colonne non riusciremmo mai a passare alle righe o alle colonne successive. Nel nostro caso, la sequenza inizia con i termini:
(1, 1),
(2, 1), (1, 2),
(3, 1), (2, 2), (1, 3),
(4, 1), (3, 2), (2, 3), (1, 4),
… e così via.
Un “trucco” analogo si può usare per dimostrare che tutti gli interi, compresi quelli negativi e incluso anche lo zero, sono equipotenti ai naturali, cioè ai soli interi positivi; basta procedere come in figura:
L’infinito dentro il finito (il paradosso di Zenone)
Il secondo paradosso è un classico – qualcuno ricorderà di averlo studiato a scuola, seppure da un punto di vista filosofico che non ne fa sospettare l’utilità matematica – e risale a Zenone (V sec. a.e.v.). Analogamente al paradosso di Achille e la tartaruga, il filosofo avrebbe affermato che era impossibile uscire da una stanza, perché occorreva percorrere prima la metà della distanza che separava dall’uscita, poi la metà della metà, poi la metà della metà della metà, e così via (vedi figura).
Se immaginiamo che all’inizio l’uscita sia distante 2 metri, dovremo prima fare un passo di un metro, poi uno di mezzo metro, poi uno di un quarto, poi uno di un ottavo, ecc. e, sommando tutti questi passi sempre più corti, la distanza percorsa D sarà data dalla formula:
D = 1 + 1/2 + 1/4 + 1/8 + 1/16 + 1/32 + …
In effetti, continuando ad accorciare i passi in questo modo, per quanti passi facciamo non riusciremo mai a coprire i 2 metri che ci separano dall’uscita, perché rimarrebbe sempre da percorrere una frazione pari all’ultimo passo fatto. La formula scritta sopra è un caso particolare della cosiddetta “serie geometrica”:
S = 1 + a + a2 + a3 + a4 + … + an + …
che, se 0 < a < 1 (cioè per a compreso tra zero e uno), converge al valore 1/(1 – a). Se, infatti, ci limitiamo al termine con esponente n e moltiplichiamo e dividiamo per (1 – a), abbiamo:
S = (1 + a + a2 + a3 + a4 + … + an) × (1 – a)/(1 – a)
S = (1 – an+1)/(1 – a)
perché le potenze intermedie, di segno opposto, si cancellano a due a due. Ora, quando n diventa molto grande, an+1 diventa sempre più piccolo, avvicinandosi al valore zero. Otteniamo così
S = 1/(1 – a)
che per a = 1/2 vale appunto 2. Questo implica che per coprire i 2 metri avremmo bisogno di fare infiniti passi. Poiché però ciascuno di noi è uscito molte volte in vita sua da una stanza, è poco verosimile che Zenone volesse convincerci dell’impossibilità di farlo, è invece probabile che il suo obiettivo fosse un altro. Quel che il paradosso ci suggerisce è che l’infinito non è poi infinitamente lontano, esso sta proprio davanti ai nostri occhi, nella stessa stanza in cui ci troviamo e in ogni gesto che facciamo, annidato nella infinita divisibilità del tempo e dello spazio, o perlomeno nel modo in cui concepiamo tempo e spazio. Ma su questo punto dovremo ritornare.
Anche l’infinito continuo è equipotente a una sua parte (Bolzano e Cantor)
Un ragionamento simile a quello fatto da Galileo per i numeri “quadrati” può essere esteso ai punti di una linea. Immaginiamo di tracciare una linea retta, su di essa possiamo scegliere un punto – chiamiamolo “origine” – e una lunghezza di base da utilizzare come unità di misura; possiamo allora rappresentare tutti i numeri mediante rispettivi punti sulla retta (vedi figura).
Che cosa intendiamo con “tutti i numeri”? Innanzitutto i numeri naturali, ciascuno distante dall’origine un numero intero di unità; ma anche gli interi negativi, disponendoli dall’altra parte dell’origine rispetto a quelli positivi; se poi utilizziamo anche i sottomultipli dell’unità di misura, potremo sistemare anche i numeri frazionari, quelli che abbiamo chiamato “razionali”. Ma a questo punto cosa ci impedisce di andare oltre? Sulla nostra linea possiamo pensare di rappresentare anche numeri “irrazionali”, come √2 e π, basandoci sulle loro relazioni con i numeri vicini di cui conosciamo i valori. La nostra retta avrà così un punto per ogni possibile valore numerico che possiamo immaginare. È per questo che si chiama “retta numerica”, e permette di parlare indistintamente di punti e di numeri, giacché non solo stabilisce una corrispondenza biunivoca tra i due insiemi, ma ne mantiene l’ordinamento e la metrica (le differenze tra i numeri corrispondono alle distanze tra i punti). Volendo, possiamo immaginare una retta numerica come un righello graduato, infinitamente lungo e senza larghezza (Erone). Rette numeriche sono ad esempio quelle utilizzate come assi cartesiani, se pensiamo di prolungarli indefinitamente.
Nella prima metà dell’Ottocento, il matematico boemo Bernard Bolzano si accorse che una funzione semplice come y = 2x definiva una corrispondenza biunivoca tra i valori di x, compresi ad esempio tra zero e uno, e quelli corrispondenti di y, compresi tra zero e due; adottando quindi il criterio della corrispondenza biunivoca per stabilire la “numerosità” dei punti, si perveniva alla conclusione che i numeri (e quindi anche i punti) compresi tra 0 e 1 erano “tanti quanti” quelli compresi tra 0 e 2. E, più in generale, poiché il fattore 2 nella funzione scelta è arbitrario, i punti (ovvero i numeri reali) compresi in qualsiasi intervallo sono “tanti quanti” quelli di qualsiasi altro intervallo. Scegliendo altri tipi di funzioni, purché continue e monotone, cioè sempre crescenti o sempre decrescenti, si può estendere questa conclusione all’intera retta, che contiene tanti punti quanti ne contiene un suo segmento piccolo a piacere.
Qualche decennio dopo, Cantor riuscì a dimostrare un fatto ancor più sconcertante. Considerando un quadrato di lato 1, ciascun punto del quadrato è identificato da una coppia di numeri, diciamo a e b, entrambi compresi tra 0 e 1, le coordinate cartesiane del punto in questione prese lungo i due lati del quadrato (vedi figura). Possiamo scrivere ciascuna delle 2 coordinate come un numero decimale, uno zero virgola seguito dalle cifre decimali, al limite infinite (se non lo sono, possiamo completarle aggiungendo infiniti zeri):
a = 0, a1 a2 a3 a4 … an …
b = 0, b1 b2 b3 b4 … bn …
Fatto ciò, possiamo riorganizzare le cifre decimali, alternando quelle di a e quelle di b per scrivere un unico numero:
c = 0, a1 b1 a2 b2 a3 b3 a4 b4 … an bn …
Il risultato è un numero compreso tra 0 e 1, che identifica quindi un unico punto su una retta numerica, per esempio su uno dei lati del quadrato. Abbiamo così stabilito una corrispondenza biunivoca tra i punti della superficie del quadrato e i punti di un suo lato, e dunque l’insieme dei punti che compongono la superficie ha tanti punti quanti ne ha il lato. Poiché una considerazione analoga si può fare anche con tre coordinate, lo stesso vale per i punti che compongono il volume di un cubo unitario, e combinando questo risultato con quello ottenuto da Bolzano si giunge alla conclusione che l’intero spazio contiene tanti punti quanti ne contiene un segmento piccolo a piacere. Quando Cantor riferì questa scoperta in una lettera al suo amico Dedekind, commentò «Lo vedo ma non ci credo»: la sua dimostrazione era corretta, ma la conclusione andava talmente contro la normale intuizione che egli stesso aveva difficoltà a credervi.
I razionali sono numerabili
Potrebbe sembrare che ci sia una grande differenza tra i numeri razionali e quelli naturali, perché questi ultimi procedono “a salti”, ovvero – come si dice – in modo discreto, mentre i primi sono fitti fitti sulla nostra linea, cosicché accanto a ciascuno di essi ce ne stanno infiniti altri. È facile constatare questa proprietà pensando che se tra 2 di essi – chiamiamoli a e b – c’è una distanza (b – a), allora posso dividere questa distanza a metà e trovare il punto (b + a)/2, che corrisponderà anch’esso a un numero razionale; poi posso dividere la distanza dimezzata di nuovo a metà, e proseguire all’infinito come nel paradosso di Zenone. Dobbiamo concludere che i numeri razionali sono arbitrariamente vicini l’uno all’altro, eppure – proprio per questo – scelto uno di essi, non possiamo mai dire quale altro numero sia l’ultimo che lo precede e quale il primo che lo segue; in mezzo ce ne saranno sempre infiniti altri, come insegna Zenone.
Nonostante questo, Cantor ebbe una brillante idea per dimostrare che i numeri razionali non sono “di più” dei naturali. L’abbiamo già anticipata facendo l’esempio delle “coppie ordinate” di numeri naturali (m, n). Poiché i numeri razionali sono il risultato di frazioni, possono essere scritti nella forma m/n, e di conseguenza possono essere disposti come nello schema già mostrato, ottenendo il seguente:
In realtà, ci saranno dei duplicati, perché ad esempio 3/3 = 2/2 = 1/1, oppure 4/6 = 2/3 e così via, ma quando incontriamo un duplicato di un numero già contato possiamo semplicemente saltarlo e passare al successivo; il risultato è che abbiamo ordinato i numeri razionali e quindi possiamo associare a ciascuno di essi un numero naturale progressivo, dal che si deduce che i due insiemi sono perfettamente equipotenti.
Adesso attenzione, perché Zenone ci insegna anche un’altra cosa che non ci aspetteremmo. Avendo numerato tutti i razionali, possiamo “togliere” dalla linea un pezzettino, di lunghezza ε, che comprende il primo di essi, poi un altro pezzettino, di lunghezza ε/2, che comprende il secondo, e un altro pezzettino, di lunghezza ε/4, che comprende il terzo, e così via, fino ad essere sicuri di aver tolto tutti i razionali. Quando avremo finito, al massimo (poiché alcuni pezzetti potrebbero sovrapporsi) avremo tolto una frazione di linea pari a 2ε, ma siccome possiamo scegliere ε piccolo a piacere, per togliere dalla linea tutti i numeri razionali l’avremo ridotta di una parte assolutamente trascurabile. Se ne deduce che, per quanto i razionali siano “fitti” sulla linea (in matematica si dice che sono un insieme “denso”), essi non danno nessun contributo alla sua lunghezza; in altre parole, il “grosso” dei punti della linea deve corrispondere ai numeri irrazionali, mentre i numeri razionali non ne costituiscono che una minoranza irrilevante (almeno dal punto di vista della misura).
Anche gli irrazionali algebrici sono numerabili
Distinguere i numeri razionali da quelli irrazionali appare un compito piuttosto semplice anche quando sono scritti in forma decimale; si può infatti dimostrare che i primi, anche quando richiedono un numero infinito di cifre decimali, hanno sempre, almeno da una certa posizione in poi, qualche periodicità, mentre i secondi non mostrano alcuna ripetitività di questo tipo.
I numeri razionali sono quelli che è possibile scrivere come frazioni (n/m), e le cifre decimali successive sono generate una dopo l’altra dai resti della divisione; ma se m è il denominatore, allora esistono solo m–1 resti possibili (se il resto è 0, allora i decimali successivi sono tutti uguali a zero), dal che segue che possiamo avere al più m–1 cifre decimali differenti (non periodiche), dopodiché la sequenza non può che ripetersi.
All’inverso, se un numero ha i decimali periodici, con un periodo di k cifre, è possibile troncarne la sequenza infinita moltiplicandolo per 10k–1. Se, per fare un esempio semplice, prendiamo il numero 0,456456456… (nel quale k = 3, per la ripetizione delle cifre 456), otteniamo:
(1000–1) × 0,456456456… = 456,456456456… – 0,456456456… = 456
e dunque 0,456456456… = 456 / 999, che è una frazione (riducibile, perché numeratore e denominatore sono entrambi divisibili per 3), ma comunque il numero di partenza è necessariamente razionale, dato che siamo riusciti a scriverlo come frazione.
Abbiamo visto che i numeri razionali sono quelli che hanno, a partire da una certa posizione, le cifre decimali periodiche, e se ammettiamo la possibilità di completare numeri senza decimali o con un numero finito di cifre decimali aggiungendo infiniti zeri finali [3] , anche gli interi e i numeri con decimali finiti possono rientrare in questa casistica. Ma allora i numeri irrazionali, cioè tutti gli altri, sono quelli che, per quante cifre decimali ne scriviamo, non hanno alcuna periodicità.
Una categoria importante di numeri irrazionali è quella di cui fa parte il numero √2 che tanto scompiglio provocò tra i pitagorici; sono le soluzioni di equazioni algebriche, cioè della forma
P(n) = 0
in cui P(n) è un polinomio con coefficienti razionali. Per questo motivo tali numeri irrazionali sono detti “algebrici”. Ad esempio, √2 è soluzione dell’equazione
n² – 2 = 0
Poiché un’equazione algebrica di grado m ha al più m soluzioni, e poiché i coefficienti razionali che la definiscono sono numerabili, anche i polinomi e le equazioni algebriche corrispondenti sono numerabili, e lo sono quindi anche le rispettive soluzioni. Non stupisce allora che anche i numeri algebrici risultino numerabili (Cantor, 1873).
Una conseguenza immediata è che possiamo applicare agli algebrici lo stesso ragionamento fatto sopra per i razionali, e affermare che anch’essi non danno alcun contributo alla lunghezza della linea.
Ma se tutto questo è vero – ci possiamo chiedere – che cos’è che dà alla linea una qualità così intuitiva, così immediata, come la sua lunghezza?
Discreto e continuo non sono equipotenti (Cantor, 1874)
L’anno successivo (1874) [4] Cantor riuscì a dimostrare che i punti della retta numerica – o i numeri reali, il che è equivalente – sono più che numerabili; il ragionamento che escogitò è il seguente. Limitiamoci per semplicità a considerare i numeri compresi tra 0 e 1, dato che come abbiamo visto essi possono esser fatti corrispondere all’intera retta numerica; in quest’intervallo ciascun numero può essere scritto in forma decimale come
r = 0, a1 a2 a3 … an …
dove le ai sono le cifre decimali di r, che possono assumere valori da 0 a 9. Se i numeri compresi nell’intervallo fossero un insieme numerabile, allora sarebbe possibile elencarli in una lista ordinata, come segue:
r1 = 0, a11 a12 a13 … a1n …
r2 = 0, a21 a22 a23 … a2n …
r3 = 0, a31 a32 a33 … a3n …
. . . . . . . . .
rn = 0, an1 an2 an3 … ann …
. . . . . . . . .
però adesso possiamo costruire un numero che non può far parte della lista nel modo seguente:
s = 0, b1 b2 b3 … bn …
in cui ogni bk sia ottenuto da akk – le cifre che stanno sulla diagonale della nostra lista – mediante una semplice rotazione delle cifre (ad esempio una di passo 2, come 0, 1, 2 … 7, 8, 9 ⟹ 2, 3, 4 … 9, 0, 1) [5] . Il valore di s così ottenuto differisce da ciascuno degli rk della nostra lista iniziale almeno per la k-esima cifra decimale, e dunque non può far parte della lista, ma allora dev’essere falsa l’ipotesi di partenza, e non è vero che i numeri compresi nell’intervallo siano un insieme numerabile [6] .
Soffermiamoci un momento a considerare le conseguenze di quanto dimostrato. Non esiste “un” infinito, ma ne esistono diversi tipi (detti “potenze”), che a questo punto sono almeno 2, il “numerabile” e il “continuo”, ma presto vedremo come sia possibile ottenerne altri, infiniti altri. Il “continuo” contiene al suo interno il “numerabile” (come ad esempio i numeri reali includono quelli razionali e quelli algebrici) ma ne è infinitamente più grande (ed è appunto la differenza che “fa” la lunghezza della linea).
La stragrande maggioranza dei punti che compongono la linea, e che non sono né razionali né algebrici, sono detti “trascendenti”.
Si può ottenere il continuo a partire dal numerabile?
La rappresentazione decimale dei numeri reali utilizzata nella sezione precedente
r = 0, a1 a2 a3 … an …
contiene già implicitamente il nesso che esiste tra numerabile e continuo; la sequenza di cifre necessarie per rappresentare un numero reale è infatti infinita, ma numerabile. Ovviamente la stessa rappresentazione e le stesse considerazioni sono valide anche se si adotta un’altra base, non decimale, ed è particolarmente istruttivo, in questo caso, riferirsi a quella binaria, nella quale si utilizzano esclusivamente le cifre 0 e 1 (questo tipo di rappresentazione si presta all’elaborazione elettronica, ed è quella che utilizzano internamente i nostri computer e i vari marchingegni elettronici che utilizziamo quotidianamente).
In notazione binaria, ad esempio, π = 11,0010010000… e per definire un numero reale r compreso tra 0 e 1 come quello rappresentato sopra occorre scegliere, tra le infinite cifre, non più decimali, ma binarie, quali debbano assumere valore 1 e quali 0. Ma questo equivale a scegliere un possibile sottoinsieme dei numeri naturali – quello, ad esempio, che contiene le posizioni delle cifre che valgono 1, ed ogni numero reale (nell’intervallo) corrisponde allora a un particolare sottoinsieme dei naturali. Vediamo allora che la “potenza” del continuo non è altro che la “potenza” dell’insieme i cui elementi sono tutti i sottoinsiemi dei naturali, ovvero, in termini matematici,
|C| = |P(N)|
dove le barre laterali indicano la potenza dell’insieme specificato al loro interno, e P(E) è l’operazione, detta “insieme potenza”, che permette di costruire da un insieme E l’insieme delle “parti” di E, cioè l'insieme che ha come elementi tutti i possibili sottoinsiemi dell’insieme E (inclusi E stesso e l’insieme vuoto, quello senza nessun elemento, che si indica con il simbolo ∅). Considerando, a titolo illustrativo, proprio questi 2 casi limite, abbiamo che N corrisponde a 0,111111111… e quindi al valore 1, mentre l’insieme vuoto ∅ corrisponde a 0,000000000… cioè allo zero.
A questo punto ci si potrebbe chiedere se esista qualche infinito “intermedio” tra il numerabile e il continuo. Cantor era convinto di no, ma non riuscì a dimostrarlo. E soltanto molto tempo dopo la sua morte si scoprì che dimostrarlo non era possibile; la congettura di Cantor, oggi nota tra i matematici come “Ipotesi del Continuo”, svolge un po’ lo stesso ruolo che ha il 5° postulato per la geometria euclidea: com’è possibile costruire una geometria euclidea e diverse geometrie non-euclidee, così è possibile costruire una teoria degli insiemi cantoriana e più teorie non-cantoriane; questo risultato è dovuto al matematico americano Paul Cohen (1963).
Ma sorge spontanea anche un’altra domanda: cosa succede se applichiamo l’operazione P(E) di nuovo all’insieme C? La risposta è che otteniamo un nuovo insieme
P(C) = P(P(N))
di una potenza ancora superiore al continuo; possiamo cercare di immaginarcelo come l’insieme di tutte le possibili funzioni che associano un valore a ciascuno dei punti di una linea o, indifferentemente, dello spazio tridimensionale, valori non necessariamente continui e che potrebbero anche essere solo zero o uno, ma in modo indipendente per ciascun punto.
Applicando ripetutamente l’operazione P(E), è possibile ottenere una successione infinita (ma numerabile) di potenze crescenti dell’infinito, anche se per la nostra immaginazione è un compito improbo cercare di raffigurarcele al di là del 3° livello.
Questi infiniti livelli scoperti da Cantor furono da lui definiti “transfiniti”, proprio per evidenziare che ciascuno di essi è sì infinito, ma non è mai il massimo infinito possibile, dato che, come avviene per i numeri naturali, se ne può sempre costruire uno più grande.
Esistono infiniti superiori ai transfiniti di Cantor?
Per indicare i suoi transfiniti, Cantor era ricorso alla prima lettera dell’alfabeto ebraico, alef (ℵ), contraddistinguendo mediante un indice le potenze crescenti; così ad esempio
ℵ0 era la potenza del numerabile,
ℵ1 era la potenza del continuo,
ℵn, con n ≥ 2, erano le potenze successive.
Ma anche per Cantor gli alef non si limitavano a questi, perché anche n poteva assumere valori infiniti, potendo così generare ℵℵ0, ℵℵ1, ℵℵ2, ecc.
Dove andava a finire questa scala transfinita di transfiniti? Secondo Cantor, che si dichiarava “religioso alla maniera di Spinoza” e che pur essendo di origini ebraiche simpatizzava per il cattolicesimo materno, esisteva un Infinito Assoluto, indicato con la lettera Ω, assimilabile al Dio del monoteismo ma – beninteso – spogliato di tutte le sue determinazioni personali, un Dio, per così dire, “matematico”.
Ω era un concetto limite che non poteva essere formalizzato come insieme, perché considerarlo tale avrebbe condotto a inevitabili contraddizioni logiche. Ma per quanto non fosse formulabile né concettualizzabile in maniera esatta, curiosamente di Ω era possibile dire molte cose, e trarne anche un ampio numero di conseguenze.
Occorre innanzitutto tener presente che il concetto di numero è duplice, potendosi distinguere tra numeri “ordinali” e “cardinali”. Gli “ordinali” sono quelli che usiamo comunemente per contare, e individuano l’ordine di un elemento in una successione (primo, secondo, terzo…); i “cardinali” definiscono invece la molteplicità di una collezione (ad esempio: sei facce in un dado da gioco, sette giorni in una settimana, oppure 24 ore in un giorno) senza considerare alcun particolare ordine tra gli elementi. Finché ci si limita a valori finiti, cardinali e ordinali si corrispondono uno-a-uno, ma questa corrispondenza non vale più, si rompe allorché i valori assunti diventano infiniti, o transfiniti.
Come abbiamo visto in precedenza, “L’infinito numerabile è equipotente a una sua parte”, per cui se ad esempio contiamo i numeri naturali in ordine crescente, otteniamo un infinito che possiamo chiamare ω. Ma se decidiamo di contare prima i dispari, anche per questi otteniamo ω, e quando passiamo a contare anche i pari avremo ω+1, ω+2, ω+3… per terminare con ω+ω. È chiaro che il “numero totale”, la cardinalità dei numeri naturali, non dipende dall’ordine in cui li contiamo, e dunque tutti gli ordinali tra ω e ω+ω corrispondono alla stessa cardinalità. Si può andare oltre, ed affermare che tutti gli infiniti numerabili – quindi anche i numeri razionali e quelli algebrici – corrispondono alla stessa cardinalità (ℵ0). Come possiamo andare “oltre il numerabile” ed ottenere le potenze superiori?
Per definire gli ordinali in modo semplice e potente, i matematici ricorrono a un “trucco”: invece di partire da uno partono dallo zero – anche se non esiste l’elemento “zeresimo” di una successione – e lo definiscono come l’ordinale che caratterizza l’insieme vuoto, insieme che abbiamo rappresentato sopra mediante il simbolo “∅”. Quest’aggiunta consente di passare all’ordinale successivo semplicemente “contando” gli ordinali precedenti; se ad esempio ho 3 elementi, contando 0, 1, 2, 3 ottengo il successivo che è il 4°. Questa “regola” si può estendere anche alle successioni infinite, così da ottenere 2 “princìpi” per l’incremento degli ordinali:
I) per ogni ordinale a, esiste un minimo ordinale maggiore di a, che indicheremo con a + 1;
II) per ogni successione crescente di ordinali an (anche infinita), esiste un minimo ordinale maggiore di ogni ordinale della successione, che indicheremo con lim(an).
ω è, ad esempio, il limite (lim) di tutti gli ordinali an finiti, e a partire da esso è possibile riapplicare il principio (I) per ottenere ω+1, ω+2, ω+3… come abbiamo fatto sopra. È chiaro adesso per quale motivo Ω, l’Infinito Assoluto, non può essere considerato un ordinale; se così fosse, sarebbe sempre possibile applicare il principio (I) per ottenere ordinali ancora più grandi.
D’altra parte, una volta che abbiamo messo assieme tutti gli ordinali appartenenti alla potenza del numerabile (ℵ0), il principio (II) ci consente di definire il primo ordinale della potenza successiva (ℵ1), corrispondente al continuo [7] . A partire da questo sarà di nuovo possibile applicare il principio (I) per ottenere i successivi ordinali della stessa potenza. In questo modo, alternando l’applicazione dei 2 princìpi, è possibile “scalare” tutte le potenze successive degli alef.
I due princìpi esplicitati sopra possono essere completati dal “Principio di riflessione”, che asserisce quanto segue:
III) per ogni proprietà concepibile di ordinali, se Ω gode di questa proprietà, allora esiste anche almeno un ordinale minore di Ω
se infatti così non fosse, la proprietà in questione permetterebbe di definire Ω come l’unico insieme che gode di tale proprietà, e ciò si può escludere in quanto, come esplicitamente dichiarato sopra, Ω non è concettualizzabile come insieme. Una versione ancora più forte dello stesso “Principio di riflessione”, ma derivabile dalla precedente, è
III′) per ogni proprietà concepibile di ordinali, se Ω gode di questa proprietà, allora esistono Ω ordinali minori di Ω che ne godono;
infatti se P è una qualsiasi proprietà concepibile, allora lo è anche “essere l’a-esimo ordinale a godere di P”, dove a è la molteplicità di qualche insieme, dunque Ω dev’essere necessariamente preceduto da Ω ordinali che godono tutti della stessa proprietà.
Da questo ulteriore Principio di riflessione si può dedurre l’esistenza di cardinali caratterizzati da specifiche proprietà, come quella di essere
• “regolare”: un cardinale κ che non può essere ottenuto sommando meno di κ ordinali minori di κ;
• “inaccessibile”: un cardinale θ, regolare e tale che ogniqualvolta κ è minore di θ, anche κ+, il successore di κ, è anch’esso minore di θ (è detto “inaccessibile” perché non è possibile raggiungerlo “dal basso” mediante incrementi; ℵ0, ad esempio, è inaccessibile, ma non lo sono né ℵ1 né ℵω; il θ successivo è così enorme che corrisponde a ℵθ);
• “iperinaccessibile”: un cardinale ν, inaccessibile e tale che esistono ν cardinali inaccessibili minori di ν (cioè dev’essere regolare, inaccessibile, e tale che, per ogni κ minore di ν, il primo inaccessibile maggiore di κ debba essere anch’esso minore di ν);
• “di Mahlo”: un cardinale ρ inaccessibile che soddisfa il ‹Principio di riflessione del punto fisso›, una forma attenuata del ‹Principio di riflessione generale›, per la quale esistono ρ ordinali minori di ρ che godono di qualsiasi concepibile “proprietà di punto fisso”;
… e molti altri – i cardinali “indescrivibili”, quelli “ineffabili”, quelli “di partizione”, “di Ramsey”, “misurabili”, “fortemente compatti”, “supercompatti”, nonché quelli “estendibili”, e infine una discussa e problematica estensione di questi ultimi, i cardinali “∞-estendibili” [9] .
L’universo degli insiemi secondo R. Rucker (1982); un googol è definito come 10¹⁰⁰, cosicché (googol)²⁰⁰ vale 10²⁰⁰⁰⁰, cioè un uno seguito da ventimila zeri. |
Riassunto dei risultati precedenti
Ripercorrendo, in una rapida carrellata, la lunga storia dell’infinito, abbiamo potuto vedere che:
- i numeri “naturali”, quelli che tutti usiamo per contare, possono crescere oltre ogni limite fissato, sono cioè infiniti, di un infinito che viene detto “numerabile”;
- di numeri “frazionari”, detti anche “razionali”, possono essercene infiniti anche in un intervallo piccolo a piacere; sono “densi” (fra due, quali che siano, ce ne sono sempre infiniti altri), ma anche questi numeri sono “numerabili”;
- i punti che costituiscono una linea possono esser fatti corrispondere ai numeri “reali”; anche questi sono “densi” ma sono molti di più di quelli “razionali”, tanto che se asportiamo tutti i punti corrispondenti ai numeri razionali, la lunghezza della linea rimane inalterata;
- dei punti che restano, detti “irrazionali”, una parte, gli “algebrici”, sono anch’essi numerabili, e possono essere tolti senza “accorciare” la linea; i punti che restano, infinitamente più numerosi di tutti quelli eliminati, sono detti “irrazionali trascendenti”, o semplicemente “trascendenti”;
- dei due tipi di infinito fin qui considerati, quello “numerabile” (i numeri “naturali”) e quello “continuo” (i numeri “reali”, o i punti di una linea), il secondo può essere ottenuto dal primo applicando un’operazione detta “insieme potenza” (si prendono come elementi tutti i possibili sottoinsiemi di elementi del primo);
- applicando questa stessa operazione al secondo, si ottiene un terzo tipo di infinito (ad esempio l’insieme di tutte le possibili linee, anche discontinue);
- applicando ripetutamente l’operazione “insieme potenza”, si ottengono tipi di infinito (un numero infinito di tipi di infinito) sempre più “potenti”, chiamati da Cantor “transfiniti” (gli alef, ℵ);
- alcuni matematici hanno definito e studiato classi di infiniti ancora superiori a questi, basandosi sulle loro proprietà, ma sono concetti astratti, dei quali è impossibile proporre esempi;
- l’infinito più grande di tutti, detto “infinito assoluto” (Ω, omega) non è concettualizzabile come insieme, pena insanabili contraddizioni; qui siamo oltre i limiti della logica; per coloro che credono in una realtà ultraterrena, tale “infinito assoluto” sarebbe equiparabile a “Dio”, un dio inteso però in senso mistico, non quello che avrebbe creato Adamo ed Eva e poi passato a Mosè le tavole della Legge.
Ma dopo una tanto temeraria escursione nelle profondità degli spazi siderali, fin dove ci hanno trasportato le ali delle astrazioni mentali dei matematici, sarà forse il caso di tornare con i piedi per terra.
La linea come creazione dell’essere umano
Avevamo anticipato, nel raccontare degli antichi Greci, che la linea in natura non esiste. Già Democrito e gli atomisti avevano sostenuto che la materia non è divisibile all’infinito e, superato Newton col suo spazio e il suo tempo assoluti e immutabili, le teorie fisiche del XX secolo hanno ipotizzato che persino spazio e tempo non siano assoluti, né immutabili, né continui.
La linea è dunque un’idea, e se non vogliamo credere con Platone che le idee esistano da sempre, in un misterioso iperuranio, e che si tratti solo di scoprirle, dobbiamo pensare che sia un’idea creata dall’essere umano, perché solo l’essere umano è capace di farla e di utilizzarla per produrre tanto oggetti d’arte quanto cose utili – e purtroppo talvolta anche cose piuttosto dannose. Ad ogni modo, se così è, dobbiamo necessariamente chiederci quando e come si sviluppi questa idea della linea, e forse prima di tutto: l’idea della linea può essere comunicata, insegnata e appresa? È forse la madre che insegna al bambino a fare la linea, perpetuandola in tal modo di generazione in generazione? Ci pare difficile immaginarlo. Ma allora dev’essere il bambino – “ogni” bambino e “ogni” bambina, a qualsiasi latitudine e in qualsiasi continente – che in modo del tutto autonomo e spontaneo “concepisce” questa idea della linea; la madre, o chi per lei, potrà soltanto, “dopo”, mostrare e insegnare come si possa realizzarla materialmente.
Se è il bambino a creare la linea, possiamo, e anzi dobbiamo chiederci quando ciò avvenga e con quale dinamica. Su quest’argomento ci vengono in soccorso le parole di un famoso psichiatra, Massimo Fagioli, il quale distingue tra “possibilità” e “capacità” di fare la linea:
«[…] la voce umana ha, in sé, un movimento che non c’è negli animali. C’è, nel vagito, un tempo precedente che è la possibilità di fare la linea. Una vitalità, un’energia del corpo che porterà la possibilità alla capacità di fare la scrittura, ricreando il silenzio della nascita umana» (‹Left 2013›, n. 51-52).
La “possibilità” di fare la linea inizia dunque alla nascita, e avrebbe le sue radici in quella che Fagioli definisce “capacità di immaginare”, la reazione del neonato allo stimolo luminoso che lo porta a realizzare, nel pensiero, l’inesistenza della realtà materiale esterna, inanimata e vissuta come aggressiva. Ma leggiamo un’altra affermazione di Fagioli, secondo cui la linea, nel pensiero, sarebbe sempre nera:
«È nera, perché il segno silenzioso che fa la separazione tra una cosa e l’altra, tra un’immagine e l’altra, se tra le cose può essere disegnata con il colore rosso, la separazione tra un’immagine e l’altra è sempre segnata in nero nella mente umana. E qui devo essere prepotente di nuovo, affermando che questo è perché la prima separazione che fa la realtà umana è la pulsione di annullamento della nascita che, potremmo dire, fa il buio intorno all’uomo» (Palau, 20 agosto 1999, riportato in “Il sogno della farfalla”, 2000, n. 1).
Quindi la linea “ideale” è nera perché è espressione della “pulsione di annullamento” che insorge nel neonato come reazione allo stimolo luminoso, reazione che lo porta a non vedere, a fare il “buio”, e qui sarebbe forte la tentazione di ipotizzare che possa esservi una relazione fra la linea e il “chiudere gli occhi”, il congiungersi delle due palpebre per non vedere.
La “capacità”, ancora tutta mentale, di fare la linea, si realizza alcuni mesi dopo, quando la visione è diventata più nitida e precisa, e il bambino scorgendosi allo specchio per la prima volta fa la conoscenza del proprio aspetto esteriore – si “riconosce” si potrebbe anche dire, se non fosse la prima volta – ovvero, con le parole dello stesso Fagioli:
«[…] E allo specchio che succede, quando si riconosce? Mette quella identità della nascita, se vogliamo adoperare questo o, prima di simbolizzare con la capacità di immaginare, parliamo di inconscio mare calmo — che adesso è stato restaurato perché c’è il movimento sotto, è molto carino eccetera —, dà una fisionomia che diventa personale, tanto che la cosa corrisponde anche alla biologia. Pediatri di tutto il mondo, al neonato bisogna mettergli la targhetta per riconoscerlo, perché tutti i volti sono uguali, però c’è l’identità che è l’identità della vita, della nascita di un essere umano. Dopo otto mesi, allo specchio, che succede? Con la percezione allo specchio il bambino cosa fa? Disegna il proprio volto. Disegnando il proprio volto, che prima non è disegnato, cosa fa? […] Ricrea la capacità di fare la linea, definendo i lineamenti, gli occhi eccetera, perché si vede, e non solo si vede ma dice: sono io. Cioè non lo dice, perché non parla, però riconosce se stesso, per questo acquisisce un’identità per cui poi diventa strafottente, a 8 mesi. È il disegnare, è cominciare a utilizzare una linea per dare una conformazione percepibile al proprio volto. Allora, quella è un’operazione… poetica. Abbiamo detto che, tre milioni di anni fa, a un certo momento l’uomo si è distinto dalla donna perché disegnava la pietra, faceva una piccola scultura, però quello era un disegnare razionale. Il neonato che si riconosce allo specchio non disegna con la mano. Cosa fa? Fa una poesia. […]» (Aula magna, Università di Roma “La Sapienza”, 6 novembre 2015).
Solo più tardi, a quattro o cinque anni di età, la maturazione dell’apparato neuromuscolare e il controllo fine dei movimenti della mano permetteranno al bambino di fare i primi scarabocchi, poi di disegnare, e infine di imparare a scrivere, ma nel frattempo la linea – la “sua” linea – avrà costituito il fondamento della sua identità personale, fondendosi alla voce e all’espressione del pensiero.
Avendo chiaramente legato fin dall’inizio l’immagine della linea al nulla della pulsione di annullamento, è lo stesso Fagioli a stabilire esplicitamente un nesso tra la linea e l’infinito:
«[…] Dal primo momento, si prende dalla pulsione la linea nera. La pulsione di annullamento fa la linea nera. Una volta dicevo che è fantasia di sparizione, invece è pulsione di annullamento. Che non ha nulla di materiale. La sensazione, memoria della sensazione avuta dal feto, fa riferimento a un fatto fisiologico, ovviamente, al contatto con il liquido amniotico. La pulsione di annullamento, invece, è un fatto assolutamente nuovo e non ha nessun precedente. E lì c’è la possibilità di fare la linea. Perché la linea non ha né principio né fine, sempre stata e sempre sarà, come il tempo. Se tu la vuoi limitare devi fare il segmento. Altrimenti è infinita come il tempo. La possibilità di fare la linea parte con la pulsione di annullamento. Il colore viene dopo, con la memoria, quando diventa esistente il corpo, allora c’è il colore, che fa la nascita» (Simona Maggiorelli, ‹Attacco all’arte›, L’Asino d’oro 2017).
La linea, infatti, pur nella sua semplicità – in tutto ciò che non è – ha infinite possibilità di sviluppo, come il pensiero e il linguaggio, e curvandosi e spezzettandosi può dare forma alle immagini oppure registrare elaborazioni verbali; può essere utilizzata persino per annotare la musica.
Possiamo ora tornare alle definizioni di Erone e leggerle con occhio diverso:
- il punto è ciò che non ha parti
[10] ; - la linea è lunghezza senza larghezza.
Notiamo innanzitutto che entrambe sono definizioni in negativo, assenza di parti per il punto, assenza di larghezza per la linea; entrambi i concetti geometrici sono dunque legati all’assenza, una proprietà che Euclide non elabora né utilizza nei suoi ‹Elementi›. Di seguito potremmo anche chiederci: ma cosa viene prima, il punto o la linea? Sulla base dei passi citati precedentemente, sembrerebbe che sia la linea ad essere un concetto “primitivo”, il punto sarebbe allora un derivato secondario, potendo essere definito dall’intersezione di 2 linee, e la priorità data ad esso da Erone sarebbe solamente un “riarrangiamento” razionale, essendo forse il punto concettualmente più “semplice” da definire, più “elementare” [11] .
A Palau, nell’agosto del 1999, è però Marcella Fagioli a proporre, nel dibattito, una ricerca che pone il punto in una nuova luce:
«[…] Sappiamo bene che la linea è un insieme infinito di punti, ma è come se il punto derivasse dalla frammentazione e dissoluzione di questa linea, senza però arrivare al nulla, perché comunque resta sempre la memoria di questo rapporto dell’essere umano con qualcosa di non umano, cioè la natura; come se in realtà, quindi, l’immagine che si forma nel rapporto interumano, dal rapporto del bambino al seno, fosse un’immagine indefinita, a differenza di quella che abbiamo detto prima. Quindi — con un passaggio forse troppo rapido — è come se il punto fosse la rappresentazione di quest’immagine indefinita. […]» (Palau, 20 agosto 1999, riportato in “Il sogno della farfalla”, 2000, n. 1).
L’immagine indefinita che si forma nel rapporto interumano, in particolare nell’allattamento, corrisponderebbe allora al punto, mentre la linea – o ciò che di essa rimane dopo il suo spezzettamento – sarebbe legata al “rapporto” con la realtà inanimata – cioè alla reazione del neonato “contro” il nuovo stimolo della luce.
Tuttavia il punto potrebbe anche essere la ricreazione del silenzio e dell’inerzia neonatale, come risulta dalla conclusione della relazione letta, pochi mesi dopo, dalla stessa Marcella Fagioli a Napoli:
«Lo scotoma che non mi fa vedere l’orologio ha un fratello buono che mi fa vedere quel piccolo segno in fondo allo scritto che viene chiamato punto; e tutti noi sappiamo distinguerlo da una piccolissima macchia che deturpa il candore della camicia.Parola inventata che si distingue dalla parola macchia, dà un comando che fa fermare l’articolazione delle parole che sto pronunciando leggendo lo scritto.Il segno non emette suoni ma dice a chi lo vede che deve tacere. Ma esso ha questo potere perché è inserito in un contesto di segni articolati, potere che perde se è fuori dal contesto e, con ignominia, diventa macchia.Allora ci divertiamo a cancellarlo e a segnarlo per il nostro potere di dare e togliere l’immagine che esiste soltanto se è legata ad altre immagini. Legame non visivo che ci costringe a pensare un legame invisibile che, se non visivo, deve essere come un’immagine mentale inventata come l’invenzione del punto che dice di tacere.Una linea invisibile che sta nello spazio che separa la parola dal punto, che il punto, per parlare, deve rubare per diventare stimolo che mi toglie la voce» (Marcella Fagioli, in ‹Crisi del freudismo›, Napoli, 9 ottobre 1999).
Il punto, cioè, trarrebbe dalla linea il suo senso e il suo significato. E ci torna in mente che le prime tracce di pensiero simbolico, all’alba del genere umano, sono linee incrociate, incise sulla superficie di una pietra (nelle già menzionate grotte di Blombos, Sudafrica, ben 77 mila anni fa). Su un altro reperto, un osso di babbuino rinvenuto nelle montagne dello Swaziland e datato 37 mila anni fa, furono praticate 29 tacche, col verosimile intento di contare qualcosa. Sull’«osso degli Ishongo» (‹Ishango Bone›), utilizzato come manico di un utensile, risalente a più di 20 mila anni fa e rinvenuto al confine dell’attuale Congo, le tacche, più di 160, sono disposte su 3 file e raggruppate in ogni fila a formare numeri legati da misteriose relazioni. Qualche studioso ha persino ipotizzato che potesse trattarsi di un rudimentale calendario, ma quello che ci pare straordinario è che le tacche sono disposte lungo una linea che non viene tracciata – un po’ come accadrebbe oggi scrivendo a mano su un foglio bianco – e quindi non può essere vista, ma dev’essere immaginata.
Anche in tempi più recenti, un modo corrente per contare qualcosa, come i giorni, è fare delle tacche, pratica che ha lasciato tracce evidenti nel linguaggio; in inglese, ad esempio, ‹score›, che un tempo era utilizzato per indicare “20”, significa sia “punteggio” sia “marcare un segno su qualcosa”. E un tale modo di contare dev’essere universalmente comprensibile, se un noto artista se n’è servito per manifestare con ironia il suo impegno politico.
Allora possiamo pensare che la linea orizzontale, visibile o invisibile che sia, abbia origine, almeno come “possibilità”, alla nascita, mentre i punti, marcati da linee trasversali, risulterebbero dalle “ricreazioni” fatte nel rapporto interumano, nel corso dell’allattamento [12] . In altre parole, il “contare” sarebbe successivo alla linea, e non viceversa. E per quanto riguarda la matematica, sarebbero i numeri naturali, col loro infinito “potenziale”, a venire dopo l’infinito “attuale”, il “discreto” a venire dopo il “continuo”.
Rovesciando il pensiero degli antichi Greci, sarebbe allora l’infinito la dimensione autentica e originaria dell’essere umano, e questo spiegherebbe come mai l’interesse dei matematici per tale concetto si sia risvegliato nell’Ottocento, quando stava rinascendo, sull’onda di una reazione alla razionalità illuminista, un interesse per il pensiero non cosciente.
Poi due guerre mondiali, Heidegger e Wittgenstein in filosofia, e lo sviluppo dell’informatica, accelerato dalle necessità belliche, che ha finito per travolgere l’economia, l’informazione e la politica, portando in auge un nuovo paradigma: all’universo-orologio del Settecento e a quello-macchina-a-vapore del secolo successivo è subentrato, nella seconda metà del XX, l’universo-computer. Non è un caso che i calcolatori che oggi organizzano, regolano e rendono possibili le nostre esistenze siano detti “macchine a stati finiti”. La grande complessità della vita moderna, in un mondo globalizzato, si basa paradossalmente sull’eliminazione o sull’asservimento di tutto ciò che non è razionale, che dev’essere funzionale alla conservazione del sistema, potendo svolgere, al più, un ruolo d’intrattenimento.
L’infinito, che l’elettronica non è in grado di elaborare, sembra ormai essere stato espunto dall’orizzonte della società e della cultura dominante. Eppure siamo sicuri che, come in epoche passate, esso sonnecchi ancora nel sottosuolo, pronto a risvegliarsi non appena la macchinosa razionalità dei tempi moderni avrà mostrato i suoi limiti.
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NOTE
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Una nota biografica: Georg Cantor nella seconda parte della sua vita soffrì di ripetute crisi maniaco-depressive, venendo ricoverato a più riprese presso la Halle Nervenklinik, la clinica psichiatrica universitaria della città in cui aveva insegnato fin dal 1869; vi morì, ufficialmente per un attacco di cuore ma in condizioni di estrema denutrizione, il 6 gennaio 1918, mentre ancora infuriava la Grande Guerra. Non fece in tempo a vedere la teoria degli insiemi infiniti, di cui aveva contribuito a gettare le basi, accettata dalla grande maggioranza dei matematici.
- il punto è ciò che non ha parti o un’estremità senza estensione o l’estremità di una linea […].
- la linea è lunghezza senza larghezza o il limite di una superficie, la superficie il limite di un corpo o larghezza senza profondità.
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INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE
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Alcuni testi dai quali sono tratte figure e citazioni, oppure da consultare per saperne di più.
- AA.VV., ‹Crisi del freudismo› (Napoli 1999), Nuove Edizioni Romane 2000.
- AA.VV., ‹La psiche oltre Freud› (Palau 1999), “Il sogno della farfalla”, n. 1, Nuove Edizioni Romane 2000.
- Amir D. Aczel (2000), ‹Il mistero dell’alef›, Il Saggiatore 2002.
- John D. Barrow (2005), ‹L’infinito - Breve guida ai confini dello spazio e del tempo›, Mondadori 2005.
- John D. Barrow (1992), ‹Perché il mondo è matematico?›, Laterza 1992.
- Massimo Fagioli, ‹Left 2013›, L’Asino d’oro 2016.
- Lucio Lombardo Radice (1981), ‹L’infinito›, Editori Riuniti 2006.
- Simona Maggiorelli, ‹Attacco all’arte. La bellezza negata›, L’Asino d’oro 2017.
- Rudy Rucker (1982), ‹La mente e l’infinito›, Muzzio 1991.
- Lucio Russo (1996), ‹La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna›, Feltrinelli 2001.
- Giovanni Semerano (2001), ‹L’infinito: un equivoco millenario›, Mondadori 2005.
- Paolo Zellini (1980), ‹Breve storia dell’infinito›, Adelphi 2001.
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