Invenzione e scoperta, le gambe della scienza
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Cultura | Scienza
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Per lo sviluppo della ricerca occorre una intelligenza non razionale, come dimostrano tanti casi, da Semmelweis a Einstein. E una capacità di immaginare ciò che non è mai esistito o non è mai stato visto
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Kekulé fece un sogno da cui comprese la struttura ciclica della molecola di benzene
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In basso da sinistra, Albert Einstein in bicicletta, una delle sue grandi passioni.
Le macchine di Leonardo da Vinci, disegno.
L’astronauta americano Eugene Cernan, comandante della missione di sbarco lunare Apollo nel 1972, in passeggiata sulla luna.
In apertura, la sezione del Large Hadron Collider, LHC, l’acceleratore di particelle presso il Cern di Ginevra
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di Ilaria Maccari, Alessia Nota e Giulia Venditti
Left n. 15 — 12/04/2019 (venerdì 12 aprile 2019), pp. 56-59.
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È l’invenzione intesa come «creazione e introduzione di un concetto, di un’idea o una tecnologia» il tema scelto per la 14esima edizione del National Geographic Festival delle Scienze che si svolge a Roma fino al 14 aprile. Lungo questo filo rosso, il festival si fa così anche occasione per celebrare tre importanti anniversari nella storia del genere umano: i 150 anni della tavola periodica, i 50 anni dal primo sbarco dell’uomo sulla luna e i 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci, forse il più grande inventore che la storia abbia mai conosciuto. Oltre ai diversi eventi a lui dedicati, l’intera struttura del festival sembra ispirarsi al genio creativo di Leonardo e alla sua interdisciplinarietà. Il programma si snoda infatti tra i vari campi della scienza, dall’astronomia alla biologia, dalla fisica alle neuroscienze, dalla matematica all’‹artificial intelligence›, lasciando però ampio spazio anche alla letteratura, alla filosofia e all’arte, con spettacoli di musica, danza e teatro. Così, sullo sfondo del tema centrale “l’invenzione nella scienza”, si coglie l’invito ad una riflessione più ampia su quella che è una delle caratteristiche specie-specifiche più spiccate del genere umano. Se infatti l’invenzione è per la scienza il presupposto vitale per ogni sua evoluzione e sviluppo, essa permea tutte le attività umane, da quelle artistiche a quelle più direttamente legate alla sopravvivenza. Nella sua specificità, infatti, l’uomo non solo si diletta in attività creative, non-razionali e senza un fine utile immediato — dipingere nel buio delle caverne, costruire strumenti musicali, chiedersi di cosa sono fatte le stelle — ma trasforma anche i bisogni primari come il ripararsi dal freddo, l’abitare e il mangiare, in occasioni per realizzare le proprie esigenze di creatività e invenzione: dalla moda, all’architettura, alla cucina. Un tema davvero ambizioso e appassionante che in questa manifestazione viene investigato nel contesto della scienza da numerosi scienziati, filosofi, giornalisti, scrittori, artisti, tra cui anche due premi Nobel, un premio Pulitzer e la recente medaglia Fields italiana: il matematico Alessio Figalli. Un viaggio all’insegna dell’invenzione e allo stesso tempo un’opportunità per restituire alla scienza un’identità nuova, lontana dalla fuorviante associazione “scienza = fredda razionalità”.
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A ben vedere le gambe su cui la scienza si muove, e si è sempre mossa fin dai suoi primi passi, sono due: la scoperta e l’invenzione. Due gambe che, come vedremo, hanno ben poco a che vedere con il cliché di scienza razionale, rigida e lucida. Nella scienza, scoperta e invenzione sono tra loro strettamente connesse, si alimentano l’un l’altra pur corrispondendo a due processi diversi: la scoperta è vedere qualcosa di sempre esistito, che non era mai stato visto prima, l’invenzione è creare qualcosa che prima non esisteva. La scoperta, quindi, di per sé non crea una realtà nuova. La Legge di gravitazione universale, ad esempio, esisteva già prima che Newton la pubblicasse nel 1687: i corpi sulla Terra sono sempre caduti verso il basso, in linea retta e con un’accelerazione g pressoché costante. Allo stesso modo i fotoni, che sono luce, cioè radiazione elettromagnetica, esistevano già prima che Einstein ne ipotizzasse l’esistenza. Pur non creando una realtà nuova, ogni scoperta crea però necessariamente pensieri nuovi, poiché porta con sé una nuova concezione del mondo e con essa, per dirla come Giordano Bruno, una nuova concezione dell’essere umano. Pensiamo ai due grandi cambi di paradigma che, nel Seicento e nel Novecento, portarono alla scoperta di nuove dimensionalità dell’universo. Prima di Newton «si riteneva che il mondo avesse solo due dimensioni (quelle in cui ci si può muovere) e la dimensione verticale pareva qualcosa di essenzialmente diverso» scrive il fisico Paul Dirac (1902 - 1984) ne ‹La bellezza come metodo›. Con la scoperta della legge di gravità, Newton mostra che la direzione verticale è simmetrica rispetto alle altre due dimensioni, e quindi essenzialmente uguale. Trecento anni dopo, Einstein fa un ulteriore passo in avanti mostrandoci il mondo con una prospettiva quadrimensionale: il tempo si unisce alle altre tre dimensioni e si inizia a parlare in termini di spazio-tempo. Se da un lato la scoperta è rendere visibile ciò che non è direttamente osservabile — pensiamo ad esempio al moto dei corpi o alle particelle elementari — dall’altro la sua portata rivoluzionaria consiste anche nel rendere visibile, davvero per la prima volta, ciò che è sempre stato osservato da tutti, ma che non è mai stato veramente visto. Scoprire in questo secondo caso, assume anche il significato di “svelare”, “smascherare”, nel senso di liberarsi dai pregiudizi e dalle false credenze che non fanno aprire gli occhi. Pensiamo ad esempio al medico ungherese Semmelweis che aveva scoperto e identificato la natura della febbre puerperale, che nell’Ottocento decimava le donne ricoverate negli ospedali viennesi, e aveva trovato un modo per prevenirla introducendo semplici misure igieniche nel reparto in cui lavorava. All’epoca le donne che partorivano in ospedale erano soprattutto prostitute o donne di ceto medio-basso, motivo per cui l’alto tasso di mortalità veniva naturalmente addotto [sic!] ad una qualche forma di giudizio divino, senza nessun’altra ipotesi di ricerca. Semmelweis seppe vedere, al di là delle credenze religiose, che il tasso dei decessi nel padiglione gestito esclusivamente da ostetriche era dieci volte più basso rispetto al padiglione in cui lavoravano i medici, che passavano — senza lavarsi le mani — dalla dissezione dei cadaveri ai letti delle partorienti.
Comprese che vi era un nesso, una causalità tra i due eventi e ipotizzò l’esistenza di “particelle cadaveriche”, oggi conosciute col nome di batteri, responsabili dei numerosissimi decessi.
Alla luce della recente violenza antiscientifica del Congresso internazionale delle famiglie, vogliamo ricordare che, più di 50 anni fa, la scoperta della dinamica della nascita umana da parte di Massimo Fagioli ha definitivamente smascherato la falsa credenza secondo cui abortire equivarrebbe a compiere un omicidio. Infatti, la vita umana inizia con il pensiero, alla nascita quando il fotone, colpendo la retina, attiva per la prima volta la sostanza cerebrale. Questa fondamentale scoperta, frutto di un’intuizione geniale, ha trovato riscontro sperimentale nel lavoro di un gruppo di ricercatori italiani dell’Università di Bologna e del Politecnico di Milano, pubblicato nel 2010 sulla rivista ‹Nature›.
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Il primo passo di ogni scoperta scientifica è quindi l’intuizione: porsi la domanda giusta nei confronti della realtà, senza mistificazioni o pregiudizi. È naturale pensare che nell’intuizione giochi un ruolo fondamentale l’elaborazione inconscia. Famoso è l’aneddoto che portò il chimico Kekulé (1829-1896) a comprendere la struttura ciclica della molecola di benzene: egli raccontò che, assopitosi davanti al caminetto, sognò di vedere gli atomi unirsi in file sinuose e ricurve come serpenti, uno dei quali si richiudeva afferrandosi con la bocca la sua stessa coda. Lo stesso Einstein nella sua autobiografia (Bollati Boringhieri, 1979) ci racconta di come, sedicenne, si immaginasse a cavallo di un raggio di luce: «Cosa succederebbe se cavalcassi un raggio di luce? Riuscirei a guardarmi allo specchio?». Già allora Einstein immaginò che viaggiando alla stessa velocità della luce, ogni altro raggio luminoso gli sarebbe apparso fermo, viaggiando alla sua stessa velocità. Fintanto che cavalcava un fotone, quindi, nessun raggio luminoso avrebbe potuto raggiungere lo specchio e riflettere la sua immagine. «C’era in questo paradosso il germe della teoria della relatività speciale», scrive lui stesso nel 1947. Era già presente infatti l’idea che la velocità della luce fosse una costante universale, limite massimo di ogni altra velocità. Come ci raccontano gli stessi scienziati, serve la capacità di fare immagini per poter arrivare a una nuova scoperta. Riportiamo le parole del matematico francese Hadamard (1865-1963): «Quando penso, non penso per simboli, ma per immagini».
Anche l’invenzione, come la scoperta, si basa prima di tutto su un pensiero non razionale, una fantasia. Rispetto alla dimensione del vedere, propria della scoperta, l’invenzione è piuttosto un fare, è creazione di qualcosa che prima non c’era. Più nello specifico, potremmo dire che l’invenzione in scienza è una “ribellione” allo stato delle cose. Una ribellione che, se non è cieca, rende la natura meno ostile e la vita umana sempre più slegata dal pensiero della sopravvivenza. Allo stesso tempo l’invenzione risponde all’esigenza, prettamente umana, di conoscere di più e meglio, superando i limiti imposti dalla natura. Viene in mente Leonardo da Vinci che inventa la prima muta da sub, per permettere all’uomo di respirare anche sott’acqua, o che si ostina a disegnare modelli per regalare all’uomo ali per volare. Pensiamo poi al telescopio di Galileo, puntato sulla luna, o all’Apollo 11, di cui proprio quest’anno festeggiamo i 50 anni dal suo primo allunaggio. L’invenzione diventa così per la scienza il mezzo attraverso cui ampliare gli orizzonti da esplorare, che permette alla ricerca di spingersi più là, oltre i “limiti del naturale e del possibile”. Ed è proprio con questa motivazione, che lo scorso anno la Reale Accademia Svedese delle Scienze ha assegnato il premio Nobel per la Fisica 2018 ad Arthur Ashkin, Gérard Mourou e Donna Strickland «per invenzioni fondamentali nel campo della fisica dei laser». I tre ricercatori hanno inventato degli strumenti di luce per manipolare singoli atomi, molecole, cellule o proteine senza danneggiarle: delle vere e proprie “pinzette ottiche”. Ecco che dalla scoperta dei fotoni di Einstein, poi approfondita con lo sviluppo della meccanica quantistica, si è arrivati ad utilizzare queste minuscole particelle senza massa come strumenti di altissima precisione. Un’ulteriore evidenza di come invenzione e scoperta si alimentino l’un l’altra in un rapporto imprescindibile: da una scoperta può seguire un’invenzione e un’invenzione può essere strumento per una nuova scoperta.
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Un esempio di questa stretta interconnessione lo troviamo nella matematica, in cui l’invenzione si fa idea per dimostrare la scoperta. Una scoperta in matematica si formalizza attraverso un teorema che, per essere tale, deve essere dimostrato. Nell’enunciato del teorema c’è la verbalizzazione della scoperta. Per la dimostrazione servono spesso idee nuove, nuovi strumenti, serve inventarsi nuove tecniche: c’è un processo creativo e un’invenzione. Lo stesso Newton per scoprire la gravità e formalizzare poi i principi della dinamica si è servito del linguaggio della matematica: ha inventato il calcolo infinitesimale trovando il formalismo giusto per legare tempo, posizione, velocità e accelerazione. Con un’intuizione geniale, ha saputo vedere nella linea il movimento di un punto nel tempo. Scoperta e invenzione sono quindi le due gambe della scienza che, muovendosi in armonia, le permettono di avanzare veloce lungo la strada della conoscenza. Due gambe che hanno nel loro movimento una sorgente comune: l’intelligenza irrazionale, che è fantasia e capacità di immaginare ciò che non è mai esistito o non è mai stato visto.
Il festival
Fino al 14 aprile si svolge a Roma la XIV edizione del National Geographic Festival delle scienze con base all’Auditorium Parco della musica, sparso in 47 luoghi della Capitale. Comprese le otto mostre dedicate alle invenzioni italiane, all’universo, al rapporto tra scienza e fumetti, alla Terra e all’ambiente. E poi ancora, conferenze spettacolo, concerti, laboratori didattici e numerosi incontri, Ad esempio, il 14 aprile con i Nobel per la fisica Gerard Mourou e Donna Strickland; mentre Paolo Galluzzi parlerà di Leonardo e del “suo” cielo. A Roma c’è anche Tiera Fletcher. giovane stella del mondo aerospaziale (v. ‹Left› del 5 aprile): il 12 aprile alle 19.30 nella Sala Petrassi dell’Auditorium con la conferenza “Dietro l’allunaggio” Info: www. auditonum.com
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ANNOTAZIONI E SPUNTI
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COMMENTO — A dire il vero, il Festival sembra più che altro un pretesto per affermare l’idea di fondo delle autrici, e cioè che la forza propulsiva della scienza non sta tanto nell’ossevazione e nell’esame razionale della realtà materiale, quanto piuttosto in quella fantasia inconscia, che è caratteristica specie-specifica dell’essere umano.
NOTA: nel testo originale, gli accapi non sembrano essere sempre in accordo con le variazioni di argomento; l’unica evidenziazione in corsivo è quella del titolo della rivista ‹Nature›.
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NOTA: comunque non risulta che Dirac scrisse mai un’opera dal titolo ‹La bellezza come metodo› (‹Beauty as a method›?), si tratta di una raccolta di suoi scritti tradotti da F. Graziosi e curati da V. Barone, raccolta che è stata pubblicata soltanto in Italia.
•[ivi]• «[…] la direzione verticale è simmetrica rispetto alle altre due dimensioni, e quindi essenzialmente uguale»: non è ben chiaro cosa s’intenda per “simmetrica”; in assenza di gravità la verticale sarebbe esattamente come una direzione orizzontale, ma appunto per questo non ci sarebbe modo per distinguerla dalle altre; in questo caso, la “direzione verticale” non esisterebbe affatto.
•[ivi]• «Trecento anni dopo, Einstein […]»: 300 anni dopo? 1687 + 300 = 1987, ma Einstein pubblica la teoria della relatività speciale nel 1905, e quella generale nel 1916, quindi al massimo 229 anni dopo i ‹Principia mathematica›.
NOTA: oltretutto, Albert Einstein (1879-1955) nel 1987 era già morto da più di 30 anni. Se invece volessimo prendere a riferimento la nascita di Isaac Newton (1642-1727), 1642 + 300 = 1942 e i conti non tornano lo stesso.
•[ivi]• «[…] l’alto tasso di mortalità veniva naturalmente addotto [sic!] ad una qualche forma di giudizio divino […]»: più che “addotto”, “attribuito”; marcato con [sic!].
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•[ivi]• «Era già presente infatti l’idea che la velocità della luce fosse una costante universale […]», Einstein sarebbe potuto venire a conoscenza dei (o della mancanza di) risultati negli esperimenti di Michelson e Morley, ma anche nel caso in cui ciò fosse avvenuto – dichiarò – della loro influenza fu del tutto inconsapevole. Da wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Albert_Abraham_Michelson):
Ci furono alcune polemiche sul fatto se Albert Einstein fosse a conoscenza dei risultati ottenuti da Michelson-Morley quando sviluppò la sua teoria della relatività speciale e se l’esperimento potesse averlo influenzato. In una successiva intervista Einstein disse che non era conscio se l’esperimento avesse esercitato su di lui una influenza diretta, ma che in ogni caso lo avrebbe sicuramente accettato per vero. Quello di Michelson è oggi considerato l’esperimento canonico di riferimento per dimostrare la mancanza di un etere rilevabile.
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