2019·07·21 - CorSera • Redi·CA • L’uomo non è un lupo

L’uomo non è un lupo


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Due famose espressioni — «homo homini lupus» e «mors tua vita mea» — definiscono ed esaltano come vincenti comporta menti egoistici alla base delle attività umane. Ma recenti studi evoluzionistici rivelano che a premiare sono soprattutto gli atteggiamenti cooperativi
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illustrazione di Massimo Caccia
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di Carlo Alberto Redi
Corriere della Sera — 21/07/2019 (domenica 21 luglio 2019)


La vita è per sua costituzione un’esperienza sociale, gli organismi a tutti i livelli del vivente sono coinvolti in interazioni sia con i propri simili sia con altri e diversi organismi; alcune di queste interazioni sono vantaggiose, benefiche e cooperative, mentre altre sono cariche di contrasti e conflittualità.

Charles Darwin pensava alla cooperazione in termini problematici, quasi come fosse una sfida alla propria teoria sul ruolo della selezione naturale. La selezione naturale in genere favorisce l’evoluzione di comportamenti che aumentano l’idoneità (la fitness) degli individui. Il comportamento cooperativo, in apparenza, fa aumentare l’idoneità di chi è gratificato, di chi riceve, e non di chi dona, così in pratica contraddicendo la logica darwiniana.

Fu tuttavia un convinto darwinista, un grande biologo britannico, William Donald Hamilton a risolvere il rompicapo, dimostrando che la cooperazione può ben evolversi se i cooperanti direttamente beneficiano altri cooperanti, in altre parole se il comportamento cooperativo è rivolto non in maniera generica ad altri individui, ma è selettivamente diretto a favorire altri cooperanti.

In biologia questo comportamento (detto assortimento selettivo) è quello che più frequentemente si osserva tra gli animali nelle forme di «reciproco mutualismo» e «selezione parentale». In ambito umano si osservano entrambe queste modalità, anche se gli scopi, la dimensione e la variabilità della cooperazione umana sono di gran lunga più rilevanti, rispetto a quello che si osserva in altri mammiferi, per via dello stabilirsi di norme derivate culturalmente, in ambito sociale. È molto probabile che nelle antichissime società di cacciatori/raccoglitori lo stabilirsi di modalità cooperative per la caccia e il raccolto abbia costituito un grande vantaggio per il gruppo interessato, poiché aumentava di molto la resa di quelle attività rispetto a quanto avveniva nei gruppi entro i quali gli individui non cooperavano.


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La nostra specie, Homo sapiens, è apparsa circa 200 mila anni fa e circa 50-60 mila anni fa è uscita dal Corno d’Africa, colonizzando il pianeta intero (anche se un recente studio pubblicato sulla rivista «Nature», relativo a un reperto ritrovato in Grecia, porterebbe a retrodatare di molto il suo arrivo in Europa): questo successo è dovuto in gran parte alla nostra capacità di cooperare, che si è andata evolvendo in tempi recenti. Sino a circa 10 mila anni fa gli uomini vivevano in piccoli gruppi di cacciatori/raccoglitori, che includevano diverse unità famigliari. Il cibo, selvaggina cacciata dai maschi e piante selvatiche raccolte dalle femmine, veniva portato al campo e diviso tra i vari membri, anche non in relazione di parentela.

In questo modo il gruppo si assicurava di avere sempre a disposizione del cibo, anche quando la caccia, da gli esiti altamente aleatori, non procurava risorse. È evidente che una caccia fortunata fruttava di tanto in tanto una quantità di cibo in eccesso (e che non poteva di certo essere conservato) rispetto alle necessità e pertanto l’eccedenza poteva tranquillamente essere divisa anche con i membri non in relazione di parentela; in altri termini il rapporto costi/benefici di un simile comportamento favorisce l’instaurarsi di una cooperazione. Anche la raccolta e il consumo di specie vegetali sono massimizzati da attività cooperative: le piante raccolte devono essere in qualche modo trattate per detossificarle o comunque cotte per aumentarne la digeribilità.

Inoltre l’analisi della storia del ciclo vitale di Homo sapiens chiarisce che c’è la cooperazione tra membri alla base del successo riproduttivo: alta fertilità, breve intervallo tra le nascite e lungo periodo di dipendenza dei piccoli dai genitori costituiscono una specificità riproduttiva problematica per una donna che deve provvedere a diverse generazioni, energeticamente dispendiose (i bimbi mangiano molto!) e in sovrapposizione. La suddivisione delle responsabilità tra madri del gruppo, cioè l’allevamento cooperativo, assicura un grande vantaggio ai gruppi che la adottano.

È evidente che l’affermarsi di questi comportamenti è ben meglio spiegato in termini di processi di evoluzione culturale che generano assortimenti tra cooperanti, come emerge dagli studi di Luigi Luca Cavalli-Sforza. E dunque non è affatto vero, come spesso si vuole far credere, che l’indole umana è per natura «cattiva». I detti popolari tendono a volte a rinforzare idee che a un’analisi scientifica si rivelano infondate. È questo il caso di famose espressioni quali ‹homo homini lupus› e ‹mors tua vita mea›, che danno per scontato quello che scontato non è.

Già solo attribuire al lupo l’indole distruttiva e crudele dell’assassino rivela la totale ignoranza dell’elaborata e sofisticata liturgia ritualizzata di gesti, comportamenti, atteggiamenti, segnali di varia natura intesi a «comunicare» la propria sottomissione da parte di un contendente all’altro, elaborati da questa specie e impiegati proprio per evitare inutili stragi. La lotta, la competizione, ha un termine ben preciso, quando uno dei due avversari si rende conto di essere soccombente e «comunica» con uno specifico linguaggio gestuale al vincitore di volersi ritrarre: allora i due prendono atto della gerarchia sociale stabilita, non scorre sangue.

Il proverbio fa invece riferimento, travisando l’indole del lupo, a una condizione dell’esistenza umana connaturata all’istinto di sopraffazione nei confronti dei propri simili. I bestiari medievali sono pieni zeppi di rappresentazioni del genere. Ed è questa un’idea che oggi fa comodo per convincere che la tua morte è la mia vita, che quindi soltanto comportamenti opportunistici di egoismo e di esclusione dei propri simili (sino alla loro eliminazione) possono garantire il benessere raggiunto da pochi a scapito dei molti, ai quali non viene neppure riconosciuta una condizione umana, così che si possono legittimamente escludere o eliminare o lasciar morire in quanto «avversari».


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Questa idea è difficile da scalfire, ma si tratta di un aspetto che è bene chiarire in tempi tanto difficili, nei quali assistiamo alla costruzione di barriere di ogni tipo, dimentichi dell’esortazione di Italo Calvino a non elevare muri, per non restarne prigionieri, e a capire che oltre i muri si incontrano diversità e ricchezze. Questa riflessione vale sia nell’esperienza della vita individuale sia in quella sociale, collettiva. Appunto Calvino, nel libro ‹Il barone rampante› (1957), ammoniva: «Se alzi un muro pensa a ciò che resta fuori». Non innalzare barriere deve divenire la pratica del nostro agire, così come occorre ricordare che cosa è accaduto alla costruzione della Torre di Babele (progetto ambizioso di uomini che avrebbero voluto scalare il cielo per raggiungere il trono della divinità): impresa fallita per la frammentazione dell’umanità «tutta», a causa dell’incapacità di riconoscersi e del tramonto della lingua comune, entrambi fattori alla base dell’impresa e a fondamento dell’agire collettivo. Nella pratica del vivere il motto ‹mors tua vita mea› si rivela un boomerang auto-distruttivo.

Quindi le vicende umane non si sviluppano proprio come ci viene raccontato da molti illustri autori. Anche se il filosofo inglese Thomas Hobbes se ne dispiacerebbe molto, recenti studi comparsi quest’anno sulla rivista «Current Biology» rivelano che la natura umana non è di base egoista e crudele, con l’istinto di sopravvivenza e quello di sopraffazione ad accendere conflittualità perenni in una guerra di tutti contro tutti (il famigerato ‹bellum omnium contra omnes›). La distruttività e la conflittualità che vediamo tanto diffuse nel nostro tempo sono l’effetto di processi sociali e storici e sono pertanto reversibili.


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Non va poi dimenticato che è grazie alle strategie di reciprocità se oggi siamo qui a disquisire di cooperazione e conflitti: abbiamo fatto scomparire l’uomo di Neanderthal, ma dopo averci fatto sesso. Si, il nostro genoma contiene ancora circa un 1,5 per cento di Dna neanderthaliano. Ecco perché soffriamo di diabete, ad esempio: per un cacciatore/raccoglitore è importante tenere alto il tasso ematico degli zuccheri, perché mangia una volta ogni tanto, ma per un agricoltore che mangia tutti i giorni questo è un male. Inoltre è molto probabile che la presenza dell’osso ioide (l’unico osso che non articola con altre ossa; un ossicino impari posto alla radice della lingua e solidale alla laringe), che permette la pronuncia delle vocali, abbia permesso lo sviluppo della tecnica più potente inventata dall’uomo: il linguaggio. Senza vocali, il linguaggio del povero Neanderthal non poteva certo permettere quelle sofisticate comunicazioni tra membri dello stesso gruppo utili a spiegarsi per adottare comportamenti di mutualismo nelle attività sociali (conflitti con altri gruppi, operazioni relative all’agricoltura e così via).

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Di conseguenza i gruppi di Homo sapiens altamente cooperanti, dopo aver fatto sesso ed essersi ibridati con il Neanderthal, nella competizione tra gruppi lo hanno eliminato. E dunque, se pure qualche azione di puro egoismo accade all’interno del gruppo (tutte le mattine del mondo ne siamo vittime), i gruppi altruisti vincono la battaglia su quelli dove vige soltanto egoismo. È la soluzione del classico «dilemma del prigioniero», nel quale se ogni giocatore fa la scelta egoisticamente migliore per lui, la situazione globale risulta essere meno preferibile per tutti e ciò stimola un comportamento cooperativo. Conviene sempre ricordarsi e ricordare ai giovani che in prima istanza il «battitore libero» può anche guadagnare qualche cosa, ma in seconda e ultima istanza, lo dice la biologia, porterà a casa solo quella che lo scienziato americano David Sloan Wilson chiama ‹sucker pay-off›, ovverosia «la paga del babbeo». Essere generosi conviene.


Il dossier


Diversi studi, pubblicati il 3 giugno scorso in un dossier sulla rivista scientifica «Current Biology», hanno approfondito la questione dei comportamenti cooperativi e altruistici, ma anche conflittuali, diffusi nella nostra specie. Gli articoli più rilevanti sono tre: Coren L. Apicella, Joan B. Silk, ‹The evolution of human cooperation› («L’evoluzione della cooperazione umana»); David J. Hosken, C. Ruth Archer, Judith E. Mank, ‹Sexual conflict› («Conflitto sessuale»); Stuart A. West, Melanie Ghoul, ‹Conflict within cooperation› («Conflitto nell’ambito della cooperazione»).


Bibliografia


L’esortazione a non costruire muri è contenuta nel romanzo di Italo Calvino (1923-1985) ‹Il barone rampante› (Einaudi, 1957). La casa editrice Codice ha pubblicato quest’anno una nuova edizione del libro del grande genetista Luigi Luca Cavalli-Sforza (1922-2018) ‹L’evoluzione della cultura› (pagine 229, € 16) uscito nel 2004. Da segnalare anche David Sloan Wilson, ‹L’altruismo› (traduzione di Andrea Migliori, Bollati Boringhieri, 2015); Michael Tomasello, ‹Altruisti nati› (traduzione di Daria Restani, Bollati Boringhieri, 2010); Silvia Bonino, ‹Altruisti per natura› (Laterza, 2012); Marshall Sahlins, ‹Un grosso sbaglio› (traduzione di Andrea Aureli, Eléuthera, 2010); Elena Marta, Sara Alfieri, ‹Empatia e altruismo› (San Paolo, 2017).


Il filosofo


Nato nel 1588 e morto nel 1679, il pensatore britannico Thomas Hobbes visse tra l’altro nel periodo della prima rivoluzione inglese, che vide la caduta della monarchia, con l’esecuzione del re Carlo I nel 1649, e poi la sua restaurazione nel 1660.


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ANNOTAZIONI E SPUNTI
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COMMENTO — L’articolo è interessante, ma in sostanza afferma che gli atteggiamenti cooperativi sono positivi perché utili, in quanto favoriscono la sopravvivenza e il successo del gruppo. Trascura completamente che l’identità umana è tale anche perché permette e favorisce comportamenti dichiaratamente “inutili”: la musica, le arti figurative, la danza ecc., volti cioè soltanto a realizzare una certa “immagine” di sé. In questo senso si potrebbe anche affermare che la tendenza alla cooperazione tra esseri umani è completamente diversa di quella – ad esempio – tra lupi, e in tale senso si potrebbe affermare che il titolo dato all’articolo sia più “vero” di quanto autore ed editore abbiano ritenuto. Un altro significativo esempio è lo sviluppo della medicina: gli animali accettano la morte (anche quella di un loro simile) come inevitabile, l’essere umano invece la rifiuta, e usa tutte le sue capacità – conoscenze e mezzi tecnici – per evitarla (o per dilazionarla).

NOTA: il testo riportato da pressreader non contiene evidenziazioni in corsivo né suddivisioni in paragrafi; contiene inoltre più d’un “accapo” arbitrario (nel bel mezzo di una frase), che abbiamo provveduto a eliminare. “Homo sapiens” non risulta evidenziato neppure nell’originale del Corriere.


[A·0]• All’autore, accademico dei Lincei e titolare di una cattedra universitaria, nonché autore di articoli e libri, è dedicata una pagina di wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Alberto_Redi).

[A3·1]• «[…] occorre ricordare che cosa è accaduto alla costruzione della Torre di Babele […]»: il richiamo a questo mito biblico è forse l’unico neo macroscopico in un articolo peraltro interessante; l’autore sembra quasi credere che la costruzione sia stata intrapresa realmente, quando è invece noto che si tratta di un’invenzione dei sacerdoti ebrei, ospiti forzati a Babilonia; la “torre” era il gigantesco tempio a ziqqurat costruito al centro della città, e la frammentazione delle lingue corrisponde alle molte etnie, provenienti dai paesi conquistati, che insieme agli ebrei erano “ospiti” della corte babilonese.
NOTA: in ogni caso non si capisce cosa c’entri la “Torre di Babele” con i “muri” di Calvino; la torre – ammesso che sia mai esistita – non aveva come scopo di escludere nessuno.

[A4·1]• «[…] abbiamo fatto scomparire l’uomo di Neanderthal, ma dopo averci fatto sesso»: la 2ª parte dell’affermazione pare dimostrata da dati archeogenetici; la 1ª parte invece – che siano stati i Sapiens a far sparire i Neanderthal – o Neandertal, secondo la grafia più moderna – è tutta da dimostrare.
IBID.• «[…] è molto probabile che la presenza dell’osso ioide […], che permette la pronuncia delle vocali, abbia permesso lo sviluppo della tecnica più potente inventata dall’uomo: il linguaggio»: questa sembra un’altra affermazione discutibile; il Neandertal come si esprimeva? con le sole consonanti? Pare una contraddizione in termini (una consonante è tale perché “suona con”, evidentemente “con” una vocale). Ma poi è da dimostrare che il Neandertal avesse minori capacità linguistiche rispetto al Sapiens (pare ad esempio dipingesse le pareti delle caverne molto prima del più “evoluto” Sapiens). Infine, il “linguaggio” non si limita alla “tecnica” per emettere suoni articolati – se così fosse, i muti, non avendo il linguaggio, non potrebbero neppure scrivere o esprimersi a gesti – il linguaggio è anzitutto un fatto “mentale”, bisogna anzitutto avere qualcosa da comunicare, poi la tecnica adatta si trova.

[A4·2]• «[…] i gruppi di Homo sapiens […], dopo aver fatto sesso ed essersi ibridati con il Neanderthal, nella competizione tra gruppi lo hanno eliminato»: dal “far sparire” si è passati all’“eliminare”, ma non si vede perché si debba “eliminare” qualcuno con cui ci si ibrida.
NOTA: l’“eliminazione” è probabilmente il risultato di uno squilibrio numerico dovuto a qualche fattore non ancora accertato; la popolazione Neanderthal continuò per millenni a mantenere bassi livelli di densità (con oscillazioni dovute alle variazioni climatiche), quella dei Sapiens mostra invece una tendenza all’aumento esponenziale, saturando rapidamente le risorse disponibili in loco, con conseguente necessità di cercare altrove nuove aree da colonizzare; siamo sostanzialmente una specie di migranti (e non disdegniamo, strada facendo, di ibridarci).

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