Un (nuovo) socialismo per il ventunesimo secolo
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Esteri | Filosofia politica
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Perché il socialismo possa funzionare nella società di oggi occorre ripensare e adattare le classiche categorie politiche ed economiche per renderle attuali. Di questo Nancy Fraser ha parlato nella sua lectio magistralis tenuta a Roma, di cui vi proponiamo un estratto
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Ocasio-Cortez e Sanders indossano con fierezza l’etichetta di «socialisti»
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Dobbiamo porre il problema della crescita come una questione politica
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Una società socialista dovrebbe trattare le necessità basilari come beni pubblici
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In alto, un manifestante del movimento Occupy Wall Street di fronte alla Federal Hall di New York City. Il cartello allude alla teoria secondo cui la politica dovrebbe rivolgersi alla maggioranza, e non all’1% della popolazione più privilegiata.
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di Nancy Fraser
Left n. 40 — 04/10/2019 (venerdì 4 ottobre 2019), pp. 30-33.
Il “socialismo” è tornato. Per decenni questa parola è stata considerata imbarazzante, un deprecabile fallimento e una reliquia di un’era passata. Non più! Oggi, politici come Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez indossano l’etichetta con fierezza e guadagnano supporto, mentre organizzazioni come i Democratic socialists of America accolgono frotte di nuovi membri. Ma che cosa intendono esattamente per “socialismo”? Seppur benvenuto, l’entusiasmo per la parola non si traduce automaticamente in serie riflessioni sul suo significato. Che cosa significa o dovrebbe significare “socialismo” ai giorni nostri? […] Chiaramente, il progetto di ripensare un socialismo per il ventunesimo secolo è di per sé un lavoro piuttosto impegnativo, fin troppo perché una sola persona o persino un singolo gruppo di persone si impegni nella sua teorizzazione. Se il lavoro verrà completato (ed è un grande “se”), sarà attraverso gli sforzi combinati di attivisti e teorici, mentre intuizioni acquisite attraverso la lotta sociale si uniscono e si potenziano con il pensiero programmatico e con l’organizzazione politica.
Ciò nonostante, voglio offrire tre serie di brevi riflessioni che mi sembrano in linea con quello che ho affermato. Queste hanno a che fare con i confini istituzionali, il surplus sociale e il ruolo dei mercati.
I problemi dei confini sono importanti almeno quanto quelli che riguardano l’organizzazione interna delle “sfere” che prendiamo per date (come «l’economico» e «il politico»). Invece di focalizzarsi esclusivamente o unilateralmente sull’organizzazione dell’economia, i socialisti avrebbero bisogno di riflettere sulla relazione dell’economia con il suo retroterra di possibilità: con la riproduzione sociale, con il naturale non umano, con le forme non capitalizzate di benessere e potere pubblico. Se il socialismo deve superare tutte le forme istituzionalizzate di irrazionalità, ingiustizia e non libertà capitaliste, deve re-immaginare i rapporti tra produzione e riproduzione, società e natura, e sociale e politico.
Non sto suggerendo che il socialismo dovrebbe semplicemente puntare a liquidare queste divisioni. Lo sforzo sovietico di abolire queste distinzioni tra il politico e l’economico può fungere da monito generale contro la liquidazione. Ma noi possiamo e dobbiamo ripensare le divisioni istituzionali che includono una società capitalista. Dobbiamo porci l’obiettivo, ad esempio, di ricollocarle in modo che materie relegate all’economia diventino politiche o sociali. Dobbiamo anche valutare di ammorbidire i confini istituzionali, rendendo le varie categorie più comprensive, meno antagonistiche l’una nei confronti dell’altra. Certamente, una società socialista deve superare la tendenza del capitalismo a istituire giochi a somma zero, che tolgono alla natura e alla riproduzione sociale ciò che danno alla produzione. Ancora più importante, dobbiamo invertire le priorità correnti su queste aree: dove le società capitaliste subordinano l’imperativo della riproduzione sociale ed ecologica alla produzione di merci, di per sé destinate all’accumulo, i socialisti hanno bisogno di mettere le cose nel giusto ordine: porre il nutrimento delle persone, la salvaguardia della natura e l’autogoverno democratico come le massime priorità della società, che eclissano efficienza e crescita. In effetti, devono mettere esattamente in primo piano quelle questioni che il capitale relega ai suoi meandri sconosciuti.
Infine, un socialismo per il ventunesimo secolo deve democratizzare il processo effettivo dell’impostare e revisionare i confini istituzionali. D’ora in poi, il lavoro metapolitico di “redominizzare” (‹redomaining›) deve essere di per sé fatto oggetto di un processo decisionale democratico collettivo: i ‹demoi› e il pubblico democratico devono decidere autonomamente quali questioni saranno affrontate all’interno delle arene di primo grado della partecipazione politica. Una conseguenza è che, mentre le unità territoriali sedimentate storicamente (gli Stati “nazionali”) non hanno bisogno (e forse non devono) essere abolite, hanno bisogno di essere articolate con nuove unità politiche demarcate funzionalmente, le quali operano su differenti scale e basi di partecipazione su “tutti i principi sottoposti”. In generale, la ridefinizione socialista dovrebbe essere vincolata dal principio di non dominazione applicato lungo tutti i principali assi trincerati nelle società capitaliste, così come lungo ogni altro asse di dominazione che potremmo scoprire o creare in futuro.
In più, il redominio deve essere guidato per quanto possibile dal principio del “paga quando consumi”. Evitando il ‹free riding› e l’accumulazione primitiva, il socialismo deve garantire la sostenibilità di tutte le condizioni di produzione, che il capitalismo ha spazzato via così insensibilmente. In altre parole: la società socialista deve impegnarsi a rifornire, riparare o sostituire tutta la ricchezza che utilizza nella produzione e nella riproduzione. Deve ricostituire il lavoro di cura e il lavoro delle persone, nonché il lavoro che produce valori d’uso o merci. Deve rifornire tutta la ricchezza che prende “da fuori”, dalle persone e dalle società di periferia così come dalla natura non umana. Deve ricostituire le capacità politiche e i beni pubblici da cui attinge mentre soddisfa altre esigenze. In altre parole: niente ‹free riding› nelle materie relegate ai meandri disconosciuti. Questa è la ‹conditio sine qua non› per superare l’ingiustizia intergenerazionale endemica nella società capitalista. Solo osservandola un socialismo per il ventunesimo secolo può superare l’irrazionalità capitalista e de-istituzionalizzare le sue intrinseche propensioni alla crisi.
Questo mi porta a una seconda serie di riflessioni, che riguardano il classico problema socialista del surplus. L’eccedenza è l’eventuale fondo di ricchezza che la società genera in eccesso rispetto a ciò che richiede per riprodursi come livello attuale e nella sua forma attuale. Nelle società capitaliste, come ho già sottolineato, il surplus è trattato come la proprietà privata della classe capitalista e utilizzato dai suoi proprietari come meglio credono, generalmente reinvestendolo con l’obiettivo di produrre ancora più surplus, sempre di più, senza limiti. Questo, come abbiamo visto, è sia ingiusto sia auto-destabilizzante. Una società socialista deve democratizzare il controllo sul surplus sociale. Deve distribuire l’eccedenza democraticamente, decidendo tramite un processo democratico cosa fare esattamente con i beni e le risorse eccedenti esistenti, così come quanto eccesso vuole produrre in futuro, ammesso che voglia produrre del surplus. In altre parole, deve de-istituzionalizzare il crescente imperativo inculcato nella società capitalista. Questo non significa che deve istituzionalizzare la decrescita come un altrettanto forte contro-imperativo, ma piuttosto che dobbiamo porre il problema della crescita (quanta e se, di che tipo, come e dove) come una questione politica. In effetti, un socialismo per il ventunesimo secolo deve trattare tutti questi problemi che ho menzionato come questioni politiche, soggette a una decisione democratica: cosa e quanto produrre, quante ore dedicare alla produzione di eccedenza oltre a quanto è necessario per riprodurre la società al suo livello attuale.
Il surplus può anche essere pensato come tempo: tempo rimasto dopo il lavoro necessario per soddisfare i nostri bisogni e per sostituire quello che abbiamo utilizzato; tempo, quindi, che può anche essere tempo libero. La prospettiva del tempo libero è sempre stata un punto centrale di tutte le classiche visioni della libertà socialista, inclusa quella di Marx. Nei primi stadi del socialismo, tuttavia, dubito che il tempo libero si profilasse molto abbondante. La ragione risiede nell’enorme conto non pagato che la società socialista erediterebbe dal capitalismo.
Sebbene il capitalismo sia orgoglioso della sua produttività e sebbene Marx stesso lo consideri un vero motore per produrre surplus, io ho i miei dubbi. Il problema è che Marx valutava il surplus praticamente solo nel tempo di lavoro che il capitale sottrae ai lavoratori salariati dopo che hanno prodotto beni sufficienti a coprire il loro costo della vita. Al contrario, presta molta meno attenzione ai vari “omaggi” e “a basso prezzo” che il capitale espropria e di cui si appropria, e ancor meno alla sua incapacità di coprire i loro costi di riproduzione. E se includessimo questi costi nella nostra valutazione? E se il capitale dovesse pagare per il lavoro riproduttivo libero, per le riparazioni e i rifornimenti dell’ecologia, per la ricchezza espropriata alle persone razzializzate, per i beni pubblici? Quanto surplus si produrrebbe a quel punto? È una domanda retorica, ovviamente. Non so nemmeno da dove potrei iniziare a costruire una risposta. Ma sono certa che una società socialista erediterebbe un conto salato appesantito da secoli di costi non ripagati.
Erediterebbe un conto pesante anche per i bisogni umani che non sono stati intercettati lungo tutto il globo: bisogni di assistenza sanitaria, di una casa, di cibo nutriente (e gustoso), di educazione, di trasporti e così via. Anche questi non dovrebbero essere contati come investimenti di surplus, ma piuttosto come una questione di assoluta necessità. Lo stesso vale per l’enorme ed urgente lavoro di de-carbonizzazione dell’economia mondiale, un compito che non si può più rimandare. In generale, la questione di ciò che è necessario e di ciò che è eccedenza assume una diversa sembianza se consideriamo una visione allargata del capitalismo. La stessa cosa vale per il problema del ruolo dei mercati in una società socialista. La risposta suggerita da quanto ho affermato finora potrebbe essere riassunta in una semplice formula: niente mercati in cima, niente mercati alla base, ma possibilmente qualche mercato nel mezzo. Lasciate che mi spieghi.
Quello che intendo con “la cima” è la collocazione del surplus sociale. Assumendo che ci sia un’eccedenza sociale da ricollocare, deve essere considerata la ricchezza sociale collettiva come un intero. Nessuna persona privata, azienda o Stato può possederla o avere il diritto di disporne. Reale proprietà collettiva, l’eccedenza deve essere allocata attraverso processi decisionali e di pianificazione collettivi che possono e devono essere organizzati democraticamente. I meccanismi di mercato non dovrebbero svolgere alcun ruolo a questo livello. Né mercati né proprietà privata devono trovarsi nella parte superiore.
Lo stesso vale per “la base”, con cui io intendo il livello dei bisogni minimi: riparo, vestiario, cibo, educazione, salute, trasporti, comunicazioni, energia, tempo libero. Non mi illudo che potremmo definire una volta per tutte cosa si intende per un bisogno di base e cosa è richiesto esattamente per soddisfarlo. Anche questo dovrebbe essere un soggetto di discussione, contestazione e decisione democratica. Ma qualunque cosa sia decisa deve essere fornita come una questione di diritto, e non sulla base della capacità di pagare. Ciò significa che i valori d’uso che produciamo per soddisfare queste esigenze non possono essere materie prime. Devono piuttosto essere beni pubblici. Questo è il motivo per cui, in effetti, non sono una grande sostenitrice del reddito di base universale e incondizionato. Questo progetto implica il sovvenzionare le persone in contanti per consentire loro di comprare oggetti per soddisfare i bisogni primari, trattando di fatto le necessità basilari come materie prime. Una società socialista dovrebbe trattarle piuttosto come beni pubblici. Di fatto, quindi, niente mercati alla base.
Quindi, niente mercati in cima o in fondo. Ma per quanto riguarda la parte centrale? Non ho una visione elaborata di questo problema. Ma immagino questa parte come uno spazio di sperimentazione con un miscuglio di differenti possibilità, uno spazio dove il “socialismo di mercato” possa trovare un posto, insieme alle cooperative, al popolo, alle organizzazioni auto-organizzate e ai progetti autogestiti. Sospetto che molte tradizionali obiezioni socialiste al mercato si dissolverebbero o diminuirebbero nel contesto che prospetto qui, dove la loro operazione non si alimenterebbe né sarebbe distorta da meccanismi che guidano l’accumulazione di capitale e l’appropriazione privata del surplus sociale. Una volta che la cima e la base sono state socializzate e de-mercificate, la funzione e il ruolo dei mercati che si trovano al centro sarebbe trasformato. Questa affermazione mi sembra abbastanza chiara, anche se non so dire esattamente come.
In effetti, ho realizzato quanto poco elaborata e rudimentale possa apparire in generale la visione del socialismo che ho schematizzato qui. Quelli che vi ho offerto sono solo i nudi contorni di un piccolissimo sottoinsieme di questioni rilevanti. Ma spero che anche questo piccolo inizio possa avere un seguito. Spero specialmente che sia riuscita a convincervi che valga la pena perseguire il progetto socialista nel ventunesimo secolo, che lungi dal restare una mera parola chiave che presenta un concetto alla moda, “socialismo” deve diventare il termine per un’alternativa genuina al sistema che sta attualmente distruggendo il pianeta e vanificando le nostre possibilità di vivere liberamente, democraticamente e in salute. Spero anche che sia riuscita a convincervi che il socialismo non può essere compreso oggi con i concetti della vecchia scuola. Solo partendo da una visione allargata del capitalismo possiamo procedere a sviluppare una visione allargata del socialismo che possa parlare a tutti i nostri bisogni e alle nostre speranze nel ventunesimo secolo.
Traduzione di Alessia Gasparini
Lectio magistralis a Roma
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Nancy Fraser è una critica teorica, una femminista e docente di filosofia alla The New School di New York City. Il suo ultimo libro è ‹Femminismo per il 99%›, sul ruolo del femminismo in una possibile rivoluzione del sistema capitalista. Il 1° ottobre Nancy Fraser è stata ospite del Museo Macro di Roma ln occasione di una rassegna di eventi a cura di Castelvecchi Editore e Filosofia in movimento. La sua lectio magistralis è intitolata “Cosa dovrebbe significare il socialismo nel XXI secolo”.
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ANNOTAZIONI E SPUNTI
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