2018·09·01 - Repubblica • Zabalbeascoa·A + Sennett·R • La resistenza di Richard Sennett

La resistenza di Richard Sennett


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Arendt è stata una pietra di paragone intellettuale nel mio percorso ma non credo di essere suo discepolo: sono un socialista alla Bernie Sanders
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Il capitalismo sta colonizzando l’immaginazione delle nostre vite. Oggi tutto ciò che è gratis è una forma di schiavitù. E, no, non andrò mai in pensione
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La flessibilità di oggi crea vite senza colonna vertebrale, persone le cui esperienze non vanno a costruire un insieme coerente
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Richard Sennett è nato a Chicago il 1° gennaio 1943. Ha vinto numerosi premi come l’Hegel Prize e il Gerda Henkel Prize. Vive a New York. È sposato dal 1987 con la sociologa olandese-americana Saskia Sassen, grande studiosa della globalizzazione
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intervista di Anatxu Zabalbeascoa
Repubblica — 01/09/2018 (sabato 1° settembre 2018)


Sono molte le questioni dirimenti della nostra società che lui ha visto arrivare prima di chiunque altro. Il sociologo Richard Sennett, nato a Chicago nel 1943, nei suoi ultimi saggi mette in guardia contro i pericoli di un lavoro flessibile che nasce da un atteggiamento esigente verso se stessi e da una mancanza di radicamento. Lontano dalle statistiche, utilizza la sociologia come letteratura. In una dozzina di libri — il più recente è ‹Costruire e abitare: etica per la città›, pubblicato in Italia da Feltrinelli — Sennett ci svela che tipo di società siamo e come siamo arrivati a questo punto.

Nel suo luminoso appartamento di Washington Square, Sennett annuncia che non andrà mai in pensione. Cinque anni fa ha avuto un infarto: da allora si è messo a dieta e ha perso peso, ma non ha smesso di bere caffè; e nemmeno di scrivere; e nemmeno di suonare il pianoforte. Passa le sue primavere a New York, e ora terrà lezione al Mit e a Harvard. Nei mesi invernali, insegna alla London School of Economics. Fra tutte le sue occupazioni (è stato anche violoncellista professionista), la scrittura si è trasformata in una routine. «Sono una persona che vive di rituali. Scrivo la mattina e conduco la mia vita nel mondo dopo pranzo».

Nei suoi saggi ha anticipato molti dei problemi della società attuale: la frammentazione delle esperienze, i pericoli della flessibilità che doveva migliorare la vita e ha finito per impregnare di lavoro ogni minuto della nostra vita privata…

«Io mi limito a vedere quello che succede. Molto spesso la gente vede più con l’immaginazione che con gli occhi».

Com’è stato possibile che cose che prima consideravamo diritti oggi vengano viste come privilegi?

«Il capitalismo moderno funziona colonizzando l’immaginazione delle cose che la gente considera possibili. Marx aveva già capito che il capitalismo non era legato tanto all’appropriazione del lavoro, quanto all’appropriazione del senso comune. Facebook è stata la penultima appropriazione dell’immaginazione: quella che vedevamo come una cosa utile ora si rivela come un modo per intromettersi nella coscienza delle persone prima che possano agire. Le istituzioni che si presentavano come liberatrici si trasformano in strumenti di controllo. In nome della libertà, Google e Facebook ci portano lungo la strada che conduce al controllo assoluto».

Come si fa a individuare i pericoli delle nuove tecnologie senza trasformarsi in un paranoico che sospetta di tutto?

«Bisogna indagare su quello che ci viene presentato come reale. È quello che facciamo noi scrittori e gli artisti. Io non sospetto. Sospettare implica l’esistenza di qualcosa di occulto, e io non credo che Facebook abbia nulla di occulto. Semplicemente non lo vogliamo vedere. Non vogliamo accettare il fatto che ciò che è gratis implica sempre una forma di dominazione».

I suoi saggi si leggono in un altro modo dopo il fallimento della Lehman Brothers?

«Dopo quel crac, le vendite del mio libro ‹La cultura del nuovo capitalismo› schizzarono alle stelle. Fino ad allora le critiche all’ordine economico erano considerate cose da nostalgici. Molte delle cose che stanno succedendo sono talmente incredibili che tendiamo a non crederci, anche se le abbiamo di fronte agli occhi».

Trump non lo ha previsto. E la Brexit nemmeno.

«Sono andati al di là dei miei poteri. Però un’intuizione l’ho avuta: il problema di Obama era che parlava con un’eloquenza meravigliosa, ma la disuguaglianza continuava ad aumentare; non è riuscito a tenerla sotto controllo. Ha sostenuto la sanità pubblica, ma per il resto non è andato oltre le parole. E questo è molto pericoloso. Non ha agito come un grande presidente».

Che cosa possono fare i politici, oggi, per difendere i diritti dei cittadini di fronte alle pressioni dei poteri economici?

«La storia lo spiega. Cento anni fa Theodore Roosevelt decise che lo Stato doveva spezzare i monopoli. Era un conservatore. Però era il presidente di tutti gli americani. Il capitalismo ha la tendenza a passare con grande facilità dal mercato al monopolio. Ed è lì, con la soppressione della concorrenza, che iniziano i grandi problemi, la grande perdita di tutele. Con i monopoli, il capitalismo passa da essere il sistema della concorrenza a essere il sistema della dominazione. Accrescere il divario salariale tra ricchi e poveri come sta succedendo adesso è la via per tutti i populismi. Questo è stato Trump».

[D·7]Ne ‹L’uomo flessibile› lei descrive la convinzione errata che la flessibilità lavorativa migliori la vita. Che tipo di vite produrranno Uber o Deliveroo?

«Vite senza colonna vertebrale, persone le cui esperienze non vanno a costruire un insieme coerente. Qualcosa di molto circoscritto al nostro tempo, e preoccupante, perché noi esseri umani abbiamo bisogno di una storia nostra, di una colonna vertebrale».

Come vede il futuro dei suoi studenti?

«Cerco di togliergli dalla testa l’idea che la vita intellettuale dipenda dalle università. In qualunque professione una persona può e deve avere una vita intellettuale attiva. È fondamentale che chiunque abbia coscienza della propria capacità intellettuale».

Lei non sembra un teorico. Come sociologo si serve del lavoro sul campo, non delle statistiche. Parla di persone che hanno nome e cognome…

«Mi sono sempre sentito radicato nell’antropologia della vita quotidiana. Questa cosa era vista con sospetto dagli esponenti degli Scuola di Francoforte negli anni 30, tranne Benjamin, che usava le sue stesse esperienze per cercare di comprendere il mondo. Per questo era disprezzato dalla Scuola di Francoforte: l’unica persona che lo difese fu Hannah Arendt».

Lei è considerato un discepolo di Arendt.

«La conobbi nel 1959. Il mio gruppo suonava i quartetti di Bartók all’Università. Lei è stata una pietra di paragone intellettuale nel mio percorso. Ma le mostrai le bozze del mio libro ‹Il declino dell’uomo pubblico› e lo trovò orribile. Era quel tipo di relazione… Aveva un legame migliore con gente filosoficamente più sofisticata di me. Insomma, temo che il rapporto fra di noi sia stato sopravvalutato. Mi sarebbe piaciuto essere il suo discepolo, ma non credo di esserlo. Provai una grande tristezza quando pubblicò ‹La banalità del male› e diventò una paria per la maggior parte della comunità ebraica scampata ai nazisti».

Oggi dove si colloca politicamente?

«Ho attraversato un periodo molto conservatore. Sono stato liberale. Ma ora sto di nuovo a sinistra: sono un socialista alla Bernie Sanders».

Perché la sinistra non riesce più a intercettare la volontà di cambiamento della gente?

«Gli interessi dei partiti di sinistra (di quelli di destra neanche a parlarne) sono diventati più importanti degli interessi della popolazione. E così non si possono fare passi avanti».

Che cosa succederà dopo Trump?

«È chiaramente un criminale. La questione è se sarà considerato responsabile dei suoi delitti oppure no. Il mondo è pieno di criminali a piede libero, e forse lui si unirà a quel gruppo».

E perché Trump ha consenso?

«È un enigma. Ma non è un fenomeno esclusivamente americano. Lo abbiamo vissuto già con Berlusconi: la gente sapeva com’era, ma nonostante questo lo voleva, per manifestare la sua rabbia, per disturbare. Trump è l’espressione della politica dell’ingiuria. L’idea di smascherarlo ormai non è più d’attualità: è stato già smascherato. Quello che ancora non sappiamo è se pagherà o no per questo. Berlusconi è riuscito a distruggere il sistema giudiziario italiano, e potrebbe essere che Trump riesca a fare lo stesso qui».

Oggi la creatività è fondamentale in tutti i lavori?

«Sì. In sociologia, creativo significa cercare una voce propria. Ma una persona ha una voce propria solo quando parla a qualcuno: la voce propria non serve per parlare da soli».




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ANNOTAZIONI E SPUNTI
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COMMENTO — Il testo originale (in spagnolo) dell’intervista è disponibile sul sito di “El País” (https://elpais.com/elpais/2018/08/09/eps/1533824675_957329.html); dal confronto si evince che solo una parte di tale intervista è stata tradotta e pubblicata su “Repubblica”; mancano in particolare domande e risposte su argomenti più personali (come quelle sull’origine parzialmente ebraica dell’intervistato). Riportiamo titolo e testo evidenziato di tale articolo (datato 18 agosto):
Richard Sennett: “Lo gratuito conlleva siempre una forma de dominación”
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La vida intelectual de este sociólogo, chelista y escritor transcurre entre Harvard, el MIT y la London School of Economics. En su vida privada se añade Nueva York, desde Washington Square, donde domina el Manhattan bohemio. A sus 75 años, este antropólogo de la vida cotidiana repasa su vida, desde Hannah Arendt hasta Bernie Sanders; critica a Obama y a Trump y disecciona una sociedad en la que las nuevas tecnologías esclavizan más a las personas que nunca
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Anatxu Zabalbeascoa
Una traduzione completa dell'articolo di Anatxu Zabalbeascoa è disponibile nei nostri archivi (qui).

[A·0]• Il testo (secondario) di segnalazioni (spogli) riporta: «intervista di Anatxu Zabalbescoa [sic!]», mentre da ricerche sul web risulta che il cognome dell’intervistatrice sia “Zabalbeascoa” (vedi foto); corretto.
•[ivi]• La pagina sul sito di repubblica come titolo e testo evidenziato riporta:
La resistenza di Richard Sennett: “Oggi tutto ciò che è gratis è una forma di schiavitù”
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Una lunga intervista al sociologo e intellettuale americano: “Il capitalismo sta colonizzando l’immaginazione delle nostre vite. La flessibilità di oggi crea vite senza colonna vertebrale. E, no, non andrò mai in pensione”
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di Anatxu Zabalbeascoa (El Pais), traduzione di Fabio Galimberti

[D·7]• Nel testo originario della domanda: «Nell’“Uomo flessibile” [sic!] lei descrive la convinzione errata […]», ‹L’uomo flessibile› è il titolo italiano cui corrisponde nell’intervista in spagnolo ‹La corrosión del carácter›; testo modificato in “Ne ‹L’uomo flessibile›”.

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[] https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2018/09/01/news/la_resistenza_di_richard_sennett_oggi_tutto_cio_che_e_gratis_e_una_forma_di_schiavitu_-205359406/
[] https://spogli.blogspot.com/2018/09/corriere-1.html
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